Come ogni mattina, sulla soglia di casa C. saluta F. che va
a scuola in bicicletta.
“Buona giornata F. Mi raccomando stai attento con la bici. Fai
attenzione alla strada che è il posto più pericoloso del mondo”.
“Sì, papà, stai tranquillo, me lo dici ogni mattina di stare
attento… Comunque il posto più pericoloso del mondo è la Fossa delle Marianne, papà,
non la strada!”
Poi esce, e C. torna alle sue cose.
Dopo qualche minuto dalla cucina arriva una vocina un po’
roca e molto assonnata: “… è Caracas il posto più pericoloso del mondo…”. Femmina
diabolica.
La scorsa settimana ho visto su Rai Movie un film francese
di qualche anno fa che avevo perso al cinema e il cui titolo da romanzo
italiano contemporaneo mi ha sempre attratto molto: “Un sapore di ruggine e
ossa” di Jacques Audiard, con Marion Cottillard e Matthias Schoenaerts.
Alì dal nord della Francia si trasferisce col figlioletto in
Costa Azzurra a casa della sorella, cerca un lavoro e, mentre fa il buttafuori
in una discoteca, conosce Stephanie, bella e tenebrosa, che è andata a ballare
da sola e che si è ferita perché è finita in una rissa. Lui, apparente
gentiluomo, l’accompagna a casa, cerca di sedurla, ma lei non ci sta –o non fa
in tempo a starci…- soprattutto perché è fidanzata con uno, brutto e antipatico.
Passa il tempo.
Stephanie di mestiere addestra orche in un parco acquatico. Un
giorno, durante uno spettacolo, avviene un incidente terribile e lei si fa
malissimo. Si risveglia in ospedale con entrambe le gambe amputate. Poi, menomata,
disperata e sola, va a vivere in una nuova casa. Alì intanto riprende a tirare di boxe.
Passa il tempo.
Stephanie guarda triste fuori dalla finestra, poi un giorno
lo chiama. Lui, che è un tipo di pochissime parole, la va a trovare subito e non
sembra preoccuparsi più di tanto che lei abbia perso entrambe le gambe, anzi la
porta al mare e la fa nuotare. Stanno bene insieme, si divertono e si capisce
che si piacciono. Poi lui inizia a fare incontri clandestini di boxe e lei lo
va a guardare e la situazione la attrae e la disturba allo stesso tempo. Un
giorno parlano di sesso e decidono a tavolino di farlo: lei inizialmente si fa
un sacco di menate perché insomma non ha più le gambe, solo le cosce, lui
invece non si fa nessun problema, anzi. Fare sesso a Stephanie fa bene. Torna a
vivere e a essere bella. Si fa tatuare sulla coscia destra la parola “droite”,
e sulla sinistra “gauche”. Figo. Poi però lei s’innamora, è gelosa delle altre
donne che Alì saltuariamente frequenta e vorrebbe da lui un coinvolgimento
diverso. Ma lui non ce la fa. Alì sembra incapace di provare emozioni. Alì è
una macchina da combattimento, perfetta per la boxe e per il sesso con Stephanie
e con chiunque ci stia. Ma è anche un tipo nervoso: tratta male il bambino e
combina un casino, e sua sorella perde il lavoro per colpa sua e quindi lo
manda via. Lui se ne torna al nord senza avvisare e salutare nessuno, e inizia
ad allenarsi seriamente.
Un giorno il suo bambino lo va a trovare. Giocano, si
divertono nella neve, fanno scivolate su un laghetto ghiacciato. Poi lui lo
perde d’occhio. Fa pipì, si gira e non lo vede più. Poi si accorge di un buco
nel ghiaccio: il bambino è finito in acqua, il bambino è sotto una lastra di
ghiaccio. Lui la spacca a pugni. Lo recupera in extremis e corrono in
ospedale. Lui ha le ossa spaccate di entrambe le mani, il piccolo rischia di
morire. Nel momento di massima disperazione lei lo chiama e lui finalmente si
lascia andare, piange disperato e le chiede di non lasciarlo solo.
Passa il tempo.
Alì diventa un campione di boxe, il figlio sorride
orgoglioso avvinghiato al suo papà, Stephanie è felice con loro. Tutti si
riscattano. The (happy) end, grazie a dio.
Ma perché “Un sapore di ruggine e ossa”? Perché questo
titolo da romanzo italiano contemporaneo che tanto mi piace? Forse Stephanie ha
il sapore di ossa anche se le ossa le ha perse ma è forte e solida come devono
essere le ossa, mentre Alì sa di ruggine che si forma sul ferro e che fatica ad
andar via, ma se ti impegni ce la fai, la gratti via e il ferro torna pulito e
lucido? Boh.
Come potevo spiegare il mio matrimonio? Chi guarda una nave
dalla costa non può giudicare la sua capacità di tenere il mare, perché la
parte importante è sempre immersa sott’acqua: non si vede.” (Andrew Sean Greer,
“La storia di un matrimonio”)
“La bellezza è una lente deformante. Holland veniva sempre
accolto da risolini e strette di mano, occhiate curiose e sguardi insistenti;
aveva una faccia e un sorriso che non si dimenticavano facilmente. Perfino nel
modo in cui teneva la sigaretta o si allacciava una scarpa c’era una certa
grazia mascolina che ti metteva voglia di fargli il ritratto. Che vita
frastornante, distorta: vedersi offrire impieghi, passaggi in macchina,
bicchieri di whisky – “Omaggio della casa, tesoro”-, accorgersi che quando
entri in una stanza l’atmosfera cambia; sentirsi sempre gli occhi addosso. Tutti
lo volevano e lui lo trovava normale; suscitava un desiderio così immediato,
così frequente che forse non si era mai posto il problema di che cosa volesse
veramente lui”. (Andrew Sean Greer, “La storia di un matrimonio”)
“Suburra”, il nuovo film di Stefano Sollima da pochi giorni
nei cinema italiani, mi è piaciuto per venti motivi più uno.
1. Perché
sono rimasta appiccicata allo schermo dal primo all’ultimo secondo, non mi
sono distratta mai, non mi sono annoiata mai, e non mi sono accorta di chi
mi sedeva dietro e ciò accade di rado (quando ho visto "Everest", il tizio
dietro tossiva e batteva in continuazione il piede sullo schienale della
mia poltrona e stavo impazzendo, così ho deciso di cambiare posto…)
2. Perché
nel film piove sempre, incessantemente, soprattutto di notte, una pioggia
grossa e pesante, un muro d’acqua fredda che inzuppa i protagonisti fino
al midollo delle ossa, e loro non ci fanno caso.
3. Perché
il film è buio.
4. Perché
la musica incalza e ti fa battere il cuore forte.
5. Perché
la tossica Viola potrebbe essere una delle ragazze che ho conosciuto in
comunità tanti anni fa e con Numero 8 forma una coppia assolutamente romantica
e assolutamente infernale.
6. Perché
al Male non c’è rimedio.
7. Perché
i buoni non ci sono, li cerchi ma non li trovi.
8. Perché
“Suburra” è contemporaneamente un noir, una crime story, un thriller, un
western, un gangster movie, un melodramma, una soap opera.
9. Perché
Pierfrancesco Favino che interpreta la parte di un politico di destra
corrotto, vizioso e a suo modo violento è talmente bravo che non sembra più figo, e non sembra più lui nemmeno nella voce (viscido, con il
corpo abbronzato e la pelle lucida, in alcuni momenti del film –
principalmente quando è in Parlamento a fare il mestiere di parlamentare –
sembrerebbe parlare in falsetto).
10. Perché
Elio Germano nel ruolo del pr Sebastiano dà fastidio.
11. Perché
Claudio Amendola nella parte di Samurai, ex terrorista nero passato alla
criminalità organizzata, è credibile e solido e serio come un padre.
12. Perché
i colpi di pistola rimbombano assordanti e ogni volta sono un pugno nello
stomaco.
13. Perché
in “Suburra” ho ritrovato tutto ciò che mi era piaciuto in "Gomorra. La serie".
14. Perché
la grande casa della famiglia rom è pazzesca e assurda, con tutti che urlano
in una lingua incomprensibile.
15. Perché
le immagini del film girate a Ostia, sul mare, sono fredde, livide, rigide
e perfette come quadri.
16. Perché
i malavitosi di professione, nella loro follia e nella loro violenza senza
limite, sono ahimè/ahinoi affascinanti.
17. Perché
lo stile della fotografia è cupo, maschile, nero, impietoso.
18. Perché,
dopo che la Leti mi ha spifferato nell’orecchio per tre volte che cosa
sarebbe successo entro qualche minuto, ho pensato che il film fosse
prevedibile, ma poi ho cambiato idea perché, insomma, io non ci ero arrivata
e forse è lei che è intelligente.
19. Perché
mi sono divertita.
20. Perché
continuo a ripensarci.
(+1. Perché ieri era la festa del cinema e ho pagato il biglietto solo tre euro)
Conoscevo una tipa strana. Avevamo la stessa età, ma non l’avresti mai detto.
Era simpatica e ridevamo spesso.
La tipa strana, però, non mi chiedeva mai nulla, e non mi
cercava mai. Non rispondeva alle mie domande e raramente
raccontava di sé. Ma io la conoscevo bene, anche se lei preferiva fare finta di
niente.
La tipa strana cambiava idea. Anzi no, non cambiava idea, lei lasciava tutto in sospeso, teneva decisioni situazioni cose persone
in sospeso.
Per lunghi periodi sfuggiva. A me o a tutti, non lo so, non
l’ho mai capito. E poi, quando ricompariva, faceva un sacco di progetti che non realizzava o realizzava, ma mai con me.
Quando le parlavo, ciò che un attimo prima mi era sembrato interessante
smetteva di esserlo e mi sentivo stupida e io stupida non lo sono mai stata. Faticavo a capire cosa le importasse e cosa le interessasse
perché nulla sembrava importarle o interessarle davvero.
La sua era una splendida saggezza o una becera stronzaggine? Non lo capii. Ciò che capii fu che questa strana tipa mi stancava.
Tornando a casa da scuola con S e una sua compagna di
classe parliamo di quando erano piccole e frequentavano la scuola materna.
“Senti, ma è vero che alla scuola materna di Poreno dove tu
andavi c’erano delle suore cattive che obbligavano i bambini a mangiare tutto,
anche il cibo che non gli piaceva? Me lo ha raccontato l’altro giorno un mio
compagno di tennis”, domanda seria e risentita S alla sua amica bionda e delicata.
“Ah, sì, è vero, mi ricordo. Io una volta ho dovuto mangiare
il pane tutto bagnato che mi era caduto in un bicchiere. Ma sono cose che si
superano, non ti preoccupare.”
Anche quella mattina la signorina Emme si svegliò e guardò
fuori dalla finestra, andò in cucina e si fece un caffè. Lo beveva con tanto latte,
due cucchiaini di zucchero e due biscotti. Poi sarebbe stato uno di quei giorni
in cui non avrebbe fatto nulla. Di sicuro non avrebbe parlato.
“Non pensare di fare arte, falla e basta. Lascia che siano
gli altri a decidere se è buona o cattiva, se gli piace o gli faccia schifo.
Intanto mentre gli altri sono lì a decidere tu fai ancora più arte.” (Andy
Warhol)