lunedì 31 marzo 2014

Cronaca di un rapporto difficile (parte seconda)

E poi arriva lei, la femmina diabolica.
Lo prende, lo accende, lo sfoglia, e lo ama di un amore immediato, spontaneo, sincero.
Si capiscono subito, loro due. “Mamma, è stupendo, non pesa, non ingombra, lo puoi tenere in borsa, lo puoi portare in campeggio”, e intanto sotto le coperte se lo tiene stretto, come fosse suo. Ma è mio. Maledizione, è mio.
Legge, e sorride. “Il Quidditch attraverso i secoli”, il primo ebook di S.
Nativi digitali dei miei stivali.
Sono gelosa.


(to be continued)

venerdì 28 marzo 2014

Le smanie per il campeggiare

Nel campeggio che dico io la vita è spartana, selvaggia, silenziosa.
Nel campeggio che dico io ho sempre qualcosa da fare, niente è già pronto, tutto è da organizzare.
Nel campeggio che dico io il tempo libero non me lo riempie nessuno, e nessuno decide per me.
Nel campeggio che dico io il tempo libero è mio.  
Nel campeggio che dico io devo procurarmi il cibo che mi serve, non troppo perché poi non so dove metterlo e lo butto, non troppo poco perché poi ho fame.
Nel campeggio che dico io cammino in continuazione, per recuperare le cose di cui ho bisogno, per andare in bagno, per andare in spiaggia, per raggiungere la cima della collina vicina e vedere cosa c’è dietro.
Nel campeggio che dico io gli orari non ci sono, mangio e dormo quando voglio.
Nel campeggio che dico io i vicini sono come me: va bene conoscersi, scambiare due chiacchiere ma senza esagerare.
Nel campeggio che dico io la vacanza è l’opposto della vacanza all inclusive. 
(La vacanza all inclusive l’ho provata una volta, e mi è bastato. Un’ansia. Ero sempre tra la gente, coinvolta in mille attività, ho praticato mille sport, ballato, cantato, mangiato e fatto le gite, e mi sono sentita sola come mai nella vita. Mi sono sentita assolutamente drammaticamente sola.) 
Nel campeggio che dico io non mi sento sola, al massimo sono sola.


giovedì 27 marzo 2014

Cronaca di un rapporto difficile (parte prima)

Lui è lì, sul comodino, che mi aspetta tranquillo. Non ha fretta, lui.
Rettangolare, nero, sottile, leggero. Discreto.
Lo guardo da lontano e lo trascuro. Lo so che lo trascuro.
Dentro, non so bene dove, ci potrebbero stare tutti i libri che voglio, migliaia di pagine, caricate lì dentro. Provo una strana inquietudine. L’ultimo libro di Jo Nesbo, "Polizia", è pronto. Che voglia di iniziare a leggere...
Ma devo prima capire come si accende, e per farlo dovrei toccarlo.
Perché esito?
Perché non voglio cambiare?
Perché ho paura di cambiare?


(to be continued)

mercoledì 26 marzo 2014

Nuovi mestieri

Ho scoperto che esiste una nuova professione. L’”arredatore di librerie”: uno ti chiama, ti chiede di arredargli la libreria, e tu lo fai, gli assembli una collezione di libri e poi ti paga.
La professione è tutt’altro che semplice. Forse non tutti sanno che l’arredamento di una libreria può essere di ben due tipi: estetico (per esempio, se devi arredare la libreria che sta in un centro estetico, ti viene la straordinaria idea di ricoprire tutti i volumi di bianco e te ne sbatti se poi sono tutti uguali tanto in un centro estetico non ci vai certo per leggere), e letterario, più impegnativo perché tu, “arredatore di librerie”, devi conoscere un sacco di titoli.
Insomma una professione nuova, stimolante e che soprattutto ti consente di venire a contatto con clienti davvero interessanti, con tante idee per la testa, curiosi della vita e del sapere, sicuri di sé…
La faccio breve: sono in cerca di lavoro, per cui mi candido. Voglio diventare “arredatrice di librerie”. A chi devo mandare il curriculum?


martedì 25 marzo 2014

Il bello della vita secondo me (3)

Pensare ai viaggi che farei.
A dove andrei.
In Cile, a casa di Neruda.
In Canada, tra le foreste, sulle montagne.
In Norvegia, lungo la costa, un fiordo dopo l’altro.
Sapere che potrei partire anche domani.
Da sola.
Insieme.
Il bello della vita secondo me.


venerdì 21 marzo 2014

Frida/Diego

Questo post è scritto un po’ di corsa… l'aereo per Roma sta per decollare...

Potrei chiamarle “coincidenze concatenate”.
Il giorno di Carnevale si è materializzata davanti ai miei occhi, mano nella mano della bambina che non ha mai avuto. La peluria sul labbro superiore e le sopracciglia folte, le collane grosse intorno al collo.
Poi l’ho guardata curiosa per un paio d’ore nascosta sotto le sembianze di Salma Hayek, nel film a lei dedicato.
Infine ho scoperto che a Roma (alle Scuderie del Quirinale, fino al 31 agosto) sono esposte le sue opere più famose (130 tra quadri, disegni e foto), e che poi da settembre anche a Genova ci sarà una mostra su di lei.
Parlo di Frida Kahlo, la pittrice messicana.
Prima conseguenza di queste “coincidenze concatenate”? Da qualche giorno pettino la mia bambina con le trecce e i fiori bianchi tra i capelli. Seconda conseguenza? Mi è venuta voglia di ripassare la storia di Frida e del suo grande e tormentato amore per Diego Rivera, il celebre muralista.


Frida nasce nel 1907 a Città del Messico. Suo padre è un immigrato tedesco ebreo e ateo, appassionato di fotografia, sua madre è una messicana cattolicissima.
Frida studia medicina. Poi a diciassette anni ha un incidente spaventoso, si rompe la spina dorsale in diversi punti, è costretta a letto per un periodo lunghissimo, immobile, con un corsetto di gesso ed enormi sofferenze. Inizia a dipingere: prima sul corsetto, poi quando i suoi genitori le mettono uno specchio sul soffitto sopra il letto, su una tela a portata di braccio. Così Frida dipinge il soggetto che “frequenta” di più, il soggetto a lei più familiare: se stessa.


Dopo diversi mesi, Frida si alza e decide di portare i suoi lavori a Diego Rivera, già molto famoso. Lui ne riconosce immediatamente il talento. Ma di lei lo affascinano anche il coraggio, l’intelligenza, la caparbietà, la sicurezza in se stessa. Iniziano a frequentarsi e s’innamorano. Scelgono un rapporto “leggero”: Frida e Diego sono compagni, colleghi, amici. Poi si parlano chiaro, o meglio Diego parla chiaro: “Frida non chiedermi fedeltà perché non te la darò, ciò che ti offro è la lealtà”. Infatti, Diego, brutto e panzone, non si sa come, è un dongiovanni pazzesco, con un matrimonio fallito alle spalle e molti amori.
Frida continua a dipingere e Diego continua ad ammirarla. Le confessa di non essere capace di dipingere come lei: lui si “limita” a dipingere la realtà, ciò che vede, Frida invece dipinge ciò che “sente”. I due decidono di sposarsi. Lealtà, non fedeltà. Diego continua ad avere diversi amori, Frida pure.


Negli anni trenta partono per gli Stati Uniti, perché Diego ha un’importante commissione. Ma va in crisi, perché sente che la sua arte non è del tutto compresa.


Lei ha un aborto spaventoso. Il primo di tanti.


Tornano in Messico. Lui ha una relazione con la sorella debole di Frida; Frida lo scopre e si arrabbia sul serio. Diego ha tradito il loro patto. Non è stato leale. Frida non ci sta. Lo molla e si taglia i bei capelli neri.


Ma Frida continua a vivere con passione. E con sofferenza. 


Ha diversi amori, uomini e donne, e dipinge con successo crescente. Il suo talento viene riconosciuto in Europa e negli Stati Uniti. Le sue opere si iniziano a vendere. Frida riceve riconoscimenti ufficiali e le esposizione si infittiscono. Nel 1940 si risposa con Diego. La sua salute peggiora. Le operazioni che subisce non si contano più. Inizia a tenere un diario, vi annota il suo stato di salute, ci disegna sopra, si segna dei ricordi, tutto con molta ironia. Nel 1953 viene organizzata la sua prima esposizione messicana. Frida non cammina più, ma Diego vuole farla partecipare comunque: la pittrice arriva trasportata su un letto a baldacchino che viene piazzato in mezzo alla galleria per consentirle di salutare i suoi ammiratori e godersi il meritato successo. Nel 1954 Frida muore in maniera poco chiara. Alcuni ipotizzano che si sia suicidata.

Frida ci ha lasciato opere straordinarie e originali, in cui la sua inconfondibile cifra stilistica si fonde con la sua straziante vicenda biografica, con il folklore indigeno messicano e con il pensiero e la storia contemporanea.
Ma mi piace pensare che la pittrice messicana abbia lasciato a noi donne anche un grande e illuminante esempio di femminilità: Frida ha saputo trasformare in segni distintivi della sua fortissima personalità quelle che noi donne comuni siamo state abituate a considerare imperfezioni (il monociglio, i baffetti neri, per intenderci). 





Frida era bella. Frida era sicura di sé. Aveva uno stile suo, originale ed elegante. Non a caso Vogue le dedicò una splendida e mitica copertina.


ps l’altro giorno una signora mi ha detto che dovrei farmi la ceretta alle sopracciglia, le ho risposto “neanche se mi paghi”.

ci, quando era una bambina




giovedì 20 marzo 2014

Caccia all’errore

Dal manuale di mio figlio F, dieci anni, quinta elementare, finora studente attento e disciplinato. Da oggi non lo so più. 

Esercizio di verifica di storia. Completa le parti mancanti.
L’Italia era abitata da tante popolazioni.
I più antichi abitanti dell’Italia furono i Camuni, i Sardi, i Siculi, i Liguri.
Da nord giunsero i Celti e molte tribù che parlavano una lingua comune: l’inglese.
Tutte queste popolazioni furono chiamate italiche.

L’inglese. L’inglese! L’inglese!!!!????
Scappa, F, scappa che ti conviene, perché se ti prendo…


mercoledì 19 marzo 2014

martedì 18 marzo 2014

Luoghi comuni?

A chi non è mai capitato di pensare: “ basta poco per essere felici”. Io l’ho pensato. E anche spesso. Ma da oggi non voglio pensarlo più, perché ho capito che è un’esclamazione falsa, fuorviante.
Mi spiego. Quando formulo questo pensiero che cosa in realtà mi sta “bastando” per essere felice? Un panorama mozzafiato su cime innevate, un tramonto sul mare liscio come l’olio, un bel film, un buon libro, un bicchiere di vino rosso, C contento che si butta giù dal Canalone e non muore, F e S che leggono assorti, la ci e la cate che corrono la maratona e noi che le aspettiamo e le salutiamo al quarantesimo chilometro, un giro di burraco sull'aia, le amiche del liceo che quando ci rivediamo è come se ci fossimo viste ieri e non un anno fa, e tanto tanto altro che potrei andare avanti all’infinito. Ora mi chiedo: non è tantissimo? A me sembra tantissimo. Come posso anche solo pensare che sia “poco”?!
Lo so, trasudo miele da ogni poro, e sono appiccicosa, ne sono consapevole. Smetto subito di scrivere altrimenti le mie dita s’incollano alla tastiera del computer, e torno in cucina a fare il sugo che è meglio.



lunedì 17 marzo 2014

L’uccello del malaugurio

“Mamma, se tu morissi con gli occhi aperti, io te li chiuderei. Così sembreresti dormire un sonno eterno.”


venerdì 14 marzo 2014

giovedì 13 marzo 2014

Profondo Nord, versione baby


I miei figli sono davvero miei figli.
Stanno leggendo Jo Nesbø, e lo adorano. Rimangono incollati alle pagine, non staccano gli occhi dalle righe, non ci riescono. Proprio come la mamma, quando legge Jo Nesbø.
Ovviamente non sono ancora così fuori di testa da far leggere ai miei figli thriller come "L'uomo di neve" o "Il leopardo". Potrebbero rimanerne traumatizzati a vita. Ma ho scoperto che Jo Nesbø - uomo dalle mille risorse che, prima di dedicarsi alla scrittura, è stato calciatore, giornalista, broker, musicista - nel tempo libero scrive anche romanzi per bambini e per ragazzi. Lo scrittore norvegese ha dichiarato che scrivere storie per bambini è una sorta di "terapia rigenerante" che gli consente di ritornare a scrivere per gli adulti con maggiore convinzione e determinazione. Bello, no!? Ho così proposto ai miei figli di leggere la serie dedicata alle avventure del dottor Prottor. Con grande e soddisfacente successo.



mercoledì 12 marzo 2014

Ode al Canalone

per C. Perché meglio di così non si può.

"(…) quando sono uscito dalla stazione sommitale della funivia, esattamente 2960 metri, e mi sono affacciato alla svasatura che precipita di sotto, la prima volta confesso di essere rimasto perplesso. Dal ballatoio non si può ancora scorgere l’enorme imbuto ma se ne scorge appena l’inizio. E la pendenza, la livida penombra, non lasciano presagire nulla di buono. Si mettono gli sci, si traversa a destra per una trentina di metri in scivolata diagonale, ci si immerge col batticuore nel botro. La pista non è stata battuta, la neve non sarà assestata, le virate su di un pendio così severo saranno un problema. E se si cade dove ci si fermerà?
Ma la neve tiene, benché non battuta, esposta a nord com’è ha, fino a metà giugno, la perfezione tipica dell’alta montagna (…). Ben presto la stazione della funivia scompare lassù in alto, ci si trova immersi nel cuore del canalone. E all’improvviso le rocce, le creste, i contrafforti, le gobbe che da lontano parevano insulse forme, acquistano, visti da presso, una intrigante personalità.
Che cos’è un canalone? Perché, rispetto alle piste aperte che sono la grandissima maggioranza, offre singolari voluttà? Il canalone è un corridoio, uno scosceso viale, una lunga prigione in cui si resta chiusi. Da una parte e dall’altra impraticabili quinte di rupi. C’è molto più carica di solitudine. C’è un gioco molto più fantastico di luci e di suoni. E c’è l’incanto dell’intimità, lo stesso che si assapora, in parete, su per i grandi camini a diedri (…). Si direbbe che qualcuno ci aspetti, che ci spii di tra le rocce. Ogni angolo, cavità, anfratto, sembra invitarci a restare, promettendo misteriose beatitudini. Nei canaloni, non sulle pareti o sulle creste, vivono gli elfi, gli gnomi, gli antichi spiriti della montagna.
Attraverso il favoloso scenario, la pista si incurva, si allarga, spaziando in vertiginosi anfiteatri, si raccoglie a cucchiaio, concede respiro, poi si restringe di nuovo, si impenna come se dietro quella gobba si spalancasse un impossibile abisso (…).
Altri due canaloni sono giustamente famosi nelle nostre Alpi, tutti e due sopra Cortina: le Tofane e il Cristallo. Quello del Groppera (che brutto, zotico e inelegante nome, però) li supera per potenza architettonica. Mille metri secchi di dislivello, tre chilometri e mezzo di percorso. Dopodiché il divino toboga si estingue a ventaglio su di un vasto pianoro. E qui riprende la febbre.
Presto allo “skilift” che riporterà su alla stazione intermedia della funivia, tornare in cima, rimettere gli sci, buttarsi ancora giù per il favoloso scivolo, scrivere sull’interminabile cateratta bianca, irrigidita tra i dirupi, la nostra piccola fatua personale illusione.
Fino a quando?"
 
(D. Buzzati, "Corriere della Sera" del 18 agosto 1965) 





venerdì 7 marzo 2014

Mani sporche o mani vuote

Meglio le mani sporche o le mani vuote?
La domanda è di quelle difficili. Il tema è di quelli pesanti. E ultimamente sono pesante, e ho la sindrome premestruale. 
Mi domando se sia meglio sporcarsi le mani o mantenerle pulite ma vuote, me lo domando soprattutto quando rifletto sulla situazione politica del Paese.
Meglio le mani sporche o le mani vuote?
Non so rispondere. Forse non voglio rispondere. Sicuramente posso anche non rispondere.
Ma gli “altri”?
Gli “altri” devono rispondere, devono saper rispondere.


ps per la cronaca wikipediana, Galileo, nel dramma di Brecht “Vita di Galileo”, dopo aver abiurato, viene accusato dai suoi amici di essersi sporcato le mani. Lui si difende sostenendo che sia meglio avere le mani sporche piuttosto che vuote. In parole povere, se Galileo non avesse abiurato sarebbe morto invano, avendo abiurato invece può continuare a vivere e a studiare. “Felice il paese che non ha bisogno di eroi”… soprattutto a mani vuote, aggiungerei, ma non ne sono completamente sicura. 

mercoledì 5 marzo 2014

"La Bella e la Bestia" di Christophe Gans


I sì:
- Vincent Cassel. Bello e selvaggio.
- Il castello incantato e in rovina dove vive la Bestia. Sembra un’incisione di Piranesi con l’aggiunta di romanticissime rose. Molto bello. Tutt’intorno montagne, alte e belle.
- Il bosco, intricato e spinoso. Che magicamente si apre al passaggio del cavallo nero in corsa.
- Alcune scene. Quando Belle, ad esempio, rompe con il suo peso la lastra di ghiaccio e cade nel lago e la Bestia la salva. O quando le enormi statue di pietra del giardino incantato si animano e si arrabbiano e si scatena il putiferio finale.
- Le parti del film che raccontano il passato del Principe. Intriganti e seducenti.
- Mio figlio e la sua amica che, in braccio alle rispettive mamme, fanno finta di avere paura.
- La cate che, spaventata, salta sulla poltroncina mentre io non faccio un plissé.

I no:
- Léa Seydoux. Centomila volte più brava, più bella, più affascinante con i capelli blu in “La vita di Adele”.
- La prima parte del film, troppo lunga. Il padre e i fratelli di Belle sono figure superflue. Sarebbe stato più interessante concentrarsi esclusivamente sul rapporto tra Belle e la Bestia e farlo evolvere con maggior gradualità. Perché il passaggio da Belle “terrorizzata” a Belle “intrigata” è decisamente brusco. A voler essere precisi il regista ha dichiarato di aver voluto dare spazio a quella parte della favola che Jean Cocteau, nel suo film del 1946, aveva tralasciato. Ma mi domando: una ragione ci sarà stata se il grande Cocteau decise di non occuparsi della figura del padre e dei familiari di Belle e di non soffermarsi troppo sull’antefatto all’origine della maledizione del Principe!?
- I costumi. Sembrano travestimenti da Carnevale. Neanche lontanamente paragonabili a quelli straordinari di “Biancaneve”, il film con Julia Roberts e la figlia di Phil Collins per intenderci.

I punti interrogativi:
- perché il film non è in 3D? Sarebbe stato più divertente.
- Perché il regista ha deciso di rendere fin da subito così evidente che la voce narrante, cioè la mamma che legge la storia ai suoi due bambini prima di dormire, è quella di Belle? Non sarebbe stato più divertente un colpo di scena finale?
- Il film a chi si rivolge? Ai grandi, ai piccini, agli intermedi?! Boh.

Dimenticavo, il sì di F, mio figlio:
- i Tadum, le strane – e, aggiungo, orripilanti - creaturine dagli occhi grandi e dalle orecchie lunghe che tengono compagnia a Belle e che alla fine si scopre sono i cani da caccia del Principe, anche loro vittime del maleficio.
E il no della sua amica:
- la bambina figlia di Belle e della Bestia. "Bruttissima"...

martedì 4 marzo 2014

La medicina


Voglio una medicina che mi guarisca da una brutta malattia.
Perché sono malata.
Lo so che sono malata.
Non può essere altrimenti.
La mia brutta malattia si manifesta solo con alcune persone.
La mia brutta malattia consiste in una terribile, irrefrenabile, deleteria voglia di contraddire queste persone nel preciso istante in cui aprono bocca.
E non mi freno, lo faccio davvero, le contraddico.
Voglio una medicina che mi guarisca da questa brutta malattia.

lunedì 3 marzo 2014

Famiglia Felice

Capita che F, dieci anni, manifesti il desiderio - o il bisogno, non lo so - di regredire. Generalmente lo assecondo. Quando la “regressione” avviene in biblioteca, ad esempio, lo assecondo volentieri, perché tutto sommato regredisco anche io di qualche anno e la cosa mi diverte e mi rilassa.
Succede così: lui sceglie dei libri illustrati, ci sediamo vicini vicini su morbidi divanetti colorati, e iniziamo a leggere insieme. A volte leggo ad alta voce, proprio come facevo quando era piccolo, a volte lui non vuole perché un po’ si vergogna. F sceglie sempre libri molto belli, con illustrazioni molto belle. Ma ce ne è uno che è il suo preferito: “Il Grande Grosso Libro delle Famiglie”, un libro davvero carino di Mary Hoffmann. Con testi semplici e chiari e con disegni divertenti racconta in quanti modi diversi ci si può definire famiglia.
Lo leggiamo attentamente e poi, terminata la lettura, diamo il via al solito siparietto.
“F, la nostra famiglia com’è?”, ogni volta gli domando.
“Grande, felice, non ricca ma nemmeno povera, complicata, ansiosa…”, ogni volta mi risponde.
“Sono d’accordo, piccolo mio, sono d’accordo”, e dentro di me penso per quanto ancora mio figlio riuscirà a tenere a freno la sua voglia di crescere… Cuore di mamma.