In piena notte mi ritrovai sulla pista di un aeroporto. Vicino a
quel signore con il paraorecchie grosso e il gilet fosforescente che di
mestiere fa segnali con le braccia agli aerei che decollano e che atterrano, aspettavo
mio padre che stava arrivando in condizioni disperate dalla Turchia su un
aeroplano privato.
A un certo punto l’aereo atterrò. Era piccolissimo e con la
punta aguzza. Dentro ci stavano, stretti stretti, il pilota, la barella con mio
padre, la moglie di mio padre, una loro amica e due giovani medici turchi dell’ospedale
americano di Istanbul che avevano prestato soccorso a mio padre una settimana
prima.
Il pilota scese per primo dalla scaletta e mi salutò. Parlava
con un forte accento tedesco e mi sembrava troppo allegro visto le circostanze. Subito me lo immaginai mentre pilotava l’aereo a casaccio sui cieli dei Balcani, sghignazzando e bevendo
champagne da un calice di cristallo con dietro mio padre traballante e agonizzante. Poi saltarono
giù dall'aeroplanino i due medici: sembravano due attori di “Grey’s Anatomy”
senza controfigura, decisamente aitanti e vestiti uguali con tute da astronauti
grigio perla. Ricordo di averli osservati a lungo, troppo a lungo, perché poi feci
mente locale e abbassai velocemente gli occhi su mio padre, che era sdraiato
sul lettino, legato, intubato, privo di conoscenza e coi capelli bianchi e
lunghi che svolazzavano dappertutto. Dopo poco arrivò sulla pista
l’autoambulanza che mia sorella aveva noleggiato per l’occasione. Ci salii e a
fianco di mio padre ci dirigemmo verso l’ospedale a sirene spiegate. C e le due
signore ci seguivano con la macchina.
Fu questo lo scoppiettante inizio di un medical drama che, tra
risvegli improvvisi e allucinati (“isabè, sono morto, sono morto, sono in
Congo, sepolto in una cassa di legno”, “isabè, ho sentito degli spari, mi
stanno cercando, mi vogliono sparare”), medici col ciuffo e la valigetta,
interrogativi enigmatici (“cos'è il cancro, isabedda, spiegamelo che io non lo
so, sono un ignorante”), bombole d’ossigeno, chemioterapie, lacrime, risate,
funerali di altri, mogli crudeli e distratte e assenti e viziate, fratelli
inetti, acquisti inutili e folli, fatture non pagate eccetera eccetera, durò circa un anno.
La serie - che ebbe grande successo in Italia e in Turchia - terminò quando
l’attore protagonista salutò per sempre i suoi spettatori, poco dopo aver
festeggiato il suo settantaquattresimo compleanno. La produzione decise di non
rinnovare il contratto al resto degli attori. Tutti a casa. Giù il sipario. The
end.
Miiii Un giorno mi farai morire...
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