Dopo il post "Jane/Serge",
un’amica mi ha detto che avrei dovuto scriverne uno sui “nostri” Jane e Serge. I nostri Jane e Serge sarebbero
Dori Ghezzi e Fabrizio De André.
A ben vedere le analogie tra
le due coppie sono poche. È vero che vivono negli stessi anni. È vero che vivono
di parole e di musica, ed è vero che Fabrizio e Serge sono sfuggenti e difficili da
inquadrare. È vero anche che Dori e Jane fanno pensare a quel tipo di donna che si sottomette al proprio uomo e che non mi è tanto simpatico, forse perché sono una che non si sottomette, e che non fa nemmeno finta di sottomettersi, anche se a volte mi piacerebbe farlo, o almeno provarci per vedere che effetto fa... Le analogie tra le due coppie finiscono qui. Perché Dori è una donna riservata, Fabrizio era un
uomo riservato e Fabrizio e Dori sono stati una coppia riservata. Agli antipodi
di Jane Birkin e Serge Gainsbourg.
Ho comunque deciso di scrivere
di Dori e Fabrizio, anche se non è facile. Scrivere di Fabrizio De André non è
facile. Il rischio di apparire banale e superficiale è in agguato. Ma ci
provo lo stesso. Per l’amica che legge il
blog; per C.; per me stessa e per tutte le volte che, ascoltando la voce di De
André e cogliendo la profondità intellettuale ed emotiva delle sue canzoni, mi sono
chiesta come deve essere stato essere la sua compagna di vita. Come deve essere
stato essere la compagna di vita di un artista così particolare e di un uomo
così affascinante.
Fabrizio nasce nel 1940.
Negli anni Sessanta è un giovane inquieto, irriverente, fuori dagli schemi. È curioso
della vita e affamato di esperienza. Senza pregiudizi e preconcetti, frequenta
i suoi amici della Genova bene, ma anche persone di estrazione
culturale e sociale diversa. Non è comunista (anzi, in molti a sinistra non lo amano
affatto perché non digeriscono le sue presunte origini "perbene", lo accusano di
qualunquismo e di trattare nelle sue canzoni temi che non conosce davvero) ma
è attratto dagli ultimi, dagli emarginati, dalle anime perse; non è cattolico ma
è affascinato dai temi religiosi; non è di destra ma è un individualista.
Insomma, a voler rimanere negli schemi, Fabrizio è un anarchico. Un invidiabile spirito anarchico, libero e capace di innamorarsi di tutto.
Nel 1964 scrive “La canzone
di Marinella”, Mina la fa sua in maniera incredibile qualche anno dopo, e poi
per Fabrizio tutto ha inizio.
Anche Dori negli anni
Settanta è famosa. Ha inciso pezzi di grande successo in coppia con
il cantante americano Wess, è molto carina, con una voce pulita e cristallina,
è bionda e una volta in Russia la scambiano per Brigitte Bardot.
Dori e Fabrizio si incontrano
nel 1973. Lui ha un matrimonio alle spalle e un figlio, Cristiano,
avuto a ventidue anni. Si lumano in un ristorante, e si piacciono. Nel ‘75 iniziano
a frequentarsi e si mettono insieme.
Fabrizio è un uomo riflessivo, ma anche pigro. Soffre quando si deve esibire in concerto, ma è un perfezionista
quando prova o registra in studio. Per sostenere il pubblico beve, fuma e si
nasconde nella penombra.
Ha talento, una voce bassa e profonda, suona bene
chitarra e violino, è colto. Dori sembra più solare, più leggera, più semplice. Apparentemente.
Dori è dolce e materna. Forte. E forse è questo ciò che Fabrizio trova in Dori: forza e dolcezza. E
intelligenza, ovviamente.
Nel ‘76 Dori rimane incinta.
Nasce Luvi.
Insieme decidono di vivere in
Sardegna, nella tenuta dell’Agnata, in Gallura. Fabrizio ama la Sardegna. Ama la
terra, gli animali, la natura, la buona cucina. Ama la cultura contadina, e in
Sardegna impara a fare il contadino.
Poi nell’agosto del 1979 Dori
e Fabrizio vengono rapiti dall’Anonima sequestri sarda. Sono tenuti prigionieri
nei boschi per centodiciassette giorni. Alla fine il padre di Fabrizio paga il
riscatto, e vengono liberati. In quei giorni Dori dà prova di carattere e di
fermezza. E lui si innamora di lei ancora di più. E ciò non è scontato, anzi.
Fabrizio sostiene che senza di lei sarebbe crollato. Centodiciassette giorni,
quattro mesi, legati, imprigionati. La coppia poteva uscirne devastata, e
invece regge. Insieme sorprendentemente perdonano e comprendono i propri carcerieri. E vanno
avanti, con nuovi dischi e nuovi successi.
A dieci anni dal sequestro, e dopo
circa quindici anni di convivenza, si sposano a Tempio Pausania. La Sardegna
rimane il luogo dove scelgono di vivere, dove Fabrizio si sente a casa.
Apro una parentesi (leggendo
le scarsissime notizie che circolano in rete sulla vita privata di Dori e
Fabrizio, ho scoperto che Beppe Grillo fu testimone di nozze di Fabrizio e viceversa.
Significa che i due erano amici. A questo punto del post - e a pochi giorni
dalle elezioni europee - non posso negare che mi piacerebbe conoscere il
pensiero di Faber sul Movimento Cinque Stelle e sulla situazione politica de
nostro Paese) e la
chiudo.
Nel 1990 Dori abbandona il
mondo dello spettacolo per problemi alle corde vocali, e forse anche per altro,
ma non si sa bene, perché Dori è una donna riservata. Verrebbe da pensare che
Dori viva all’ombra di Fabrizio e che cammini al suo fianco ma un po' indietro, come nascosta dalla sua personalità. Ma chi lo sa come vanno veramente le cose nelle coppie, soprattutto nelle coppie riservate... Ciò che è certo è che Fabrizio è un uomo impegnativo, un
padre ingombrante, e un marito pieno di fascino ma fragile e pesante allo stesso tempo.
Nel gennaio del 1999 Fabrizio
muore prematuramente e per tanti improvvisamente perché in pochi sapevano della
sua malattia. Una folla immensa ha reso omaggio al cantautore genovese il giorno del suo funerale. C'erano tutti: Dori, i figli, gli amici di sempre, persone "normali", gente ricca e gente povera, giovani e anziani, studenti e ragazzi dei centri sociali, anarchici e pugni alzati e tifosi del Genoa. Diecimila persone lo hanno salutato in silenzio. Dori oggi si occupa della Fondazione De André. E sente la sua mancanza giorno. Come quei diecimila. E tanti altri.
Un piccoletto di quattro anni,
col caschetto in testa, in sella a una microbici, vede una ragazzina uscire
sudata dalla palestra, e le urla: “Ti amoooooo”.
Sottotitolo: Perché non ho
mai letto “Anna dai capelli rossi” di Lucy Maud Montgomery
Da bambina non ho letto “Anna
dai capelli rossi”. Ero prevenuta. Così, qualche giorno fa, ho chiesto a S. di
leggerlo – e sottolinearlo – per me. Lei
lo ha fatto. E le è piaciuto.
S. è quella tra i miei due
figli che non è venuta coi capelli rossi e che per “rimediare” - e per dare il suo contributo al rischio di estinzione che pare corra il gene dei capelli rossi - ha deciso che
da grande sposerà un uomo coi capelli rossi, così avrà dei figli coi capelli
rossi. Per farlo, e per avere un’ampia scelta, andrà a vivere in Irlanda o in
Cornovaglia. Femmina diabolica.
Ecco alcuni dei punti incriminati e
incriminanti del romanzo, evidenziati da mia figlia.
"(...) e afferrate le due trecce le mise sotto il naso di Matthew che la guardò stupito. - Secondo lei signore, che colore è questo?
Nonostante la sua inesperienza in fatto di capelli femminili, Matthew rispose senza alcun dubbio: - Rosso.
- Già, è proprio rosso - sospirò la ragazzina. - Ecco perché non posso essere perfettamente felice. Cerco di immaginare che ho dei capelli neri come l'ala di un corvo, ma lo so che sono rossi! Mi si spezza il cuore quando ci penso, ho un grande cruccio (...)"
"- Anche lei sarebbe cattiva se avesse i capelli rossi - replicò Anna sulla difensiva."
"Squadrò la nuova venuta da capo a piedi ed esclamò acida: - Non ti hanno certo presa per la tua bellezza! Misericordia, come sei magra e bruttina... Non ho mai visto tante lentiggini su una faccia; per forza, con quei capelli rosso carota! Vieni qua, lasciati guardare... Su, avvicinati."
"Sono la persona più felice al mondo, sono perfettamente felice anche se ho i capelli rossi."
"(...) Josie va dicendo che anche una fata coi capelli rossi è ridicola. Ma io non ci faccio caso; con una coroncina di rose bianche i capelli si noteranno meno (...)"
"(...) Quando la vidi la prima volta con quegli occhi enormi, le lentiggini, i capelli color carota, magra come un'acciuga, mi fece impressione: a me piacciono le ragazze in carne come Diana. Ma ora... Non so come mai, quando è insieme alle amiche, nonostante sia meno bella, fa apparire le altre insignificanti. È come vedere degli insipidi fiorellini bianchi accanto a una splendida rosa scarlatta!"
Perché non ho mai voluto leggere
“Anna dai capelli rossi”? Credo di poter non rispondere.
F. dai capelli rossi
ha deciso, però, di leggerlo. Sono curiosa. La storia continua.
“Nella vita ho avuto momenti
di assoluta chiarezza, quando per pochi, brevi secondi, il silenzio soffoca il
rumore e provo un’emozione invece di pensare e le cose sembrano così nitide e
il mondo sembra così nuovo. È come se tutto fosse appena iniziato. Non riesco a
far durare questi momenti, io mi ci aggrappo, ma come tutto svaniscono.
Ho vissuto una vita per quei
momenti, mi riportano al presente, e mi rendo conto che tutto è esattamente
come deve essere… E all’improvviso, lei è arrivata” (dal film “ A single man” di Tom Ford)
Mi piace viaggiare in
macchina. Mi piace svegliare i bambini la mattina presto e partire veloci, con
tutto ciò che ci serve nel portabagagli. Mi piace pensare di poter vivere come
nomadi. Con poche cose, spostandoci da un luogo all’altro. Alla ricerca di un
clima migliore, di spiagge più belle, di montagne più alte, di città da
scoprire.
In macchina con me, però, ci sono un marito che ama ascoltare musica d’altri tempi, e due figli che hanno i suoi stessi gusti e
che sono stati abituati a porsi e a porre domande…
“Mamma, chi era Pablo? Perché
tradisce la moglie? Ma se l’hanno ammazzato, come fa a essere vivo?”
“Mamma, ma perché questo cane
vive addosso ai muri e non parla mai?”
“Bambini, forza, tutti in
coro: è mai possibile o porco di un cane che le avventure in codesto
reame debban risolversi tutte con grandi putta-aaa-neeeee!”
“ Sei minuti all’albaaaa”, “No,
papà, questa no, cambia che mi viene da piangere…”, “No, no, non cambiare, a me
piace, papà mi racconti la storia di questa canzone?”, “Allora dovete sapere
che Jannacci l’ha scritta pensando a suo
padre partigiano morto in guerra e bla bla bla…”
“Bella questa, papà: cosa
sarà che fa crescere gli alberi na na na na che fa morire a vent'anni na na na
na cosa sarà a far muovere il vento na
na na na, ohhhhhhh cosa saràààààà”
“Papà tu in Jesus Christ Superstar
chi vuoi essere?”, “Erode”, “Figo, io Anna”,
“Bravo”, “Uffa, io non voglio essere quella sdolcinata di Maddalena. Maddalena
la fa la mamma!, io no, non è abbastanza rock”
Così per ore. Ore.
Poi, basta.
Basta, davvero, e allora...
”Okay, ragazzi, è stato bello, adesso mettiamo su Radio Deejay, altrimenti vi giuro che scendo”
Così il viaggio continua. Ma mi sento una guastafeste. Finché non arriviamo a destinazione, e allora mi passa.
Trent’anni dopo - chi l'avrebbe mai detto! - ho usato
l’eroe della mia adolescenza per comunicare con mio figlio (e con mia figlia,
ma soprattutto con mio figlio) e per dirgli un sacco di cose.
Mentre guardavamo “Karate
Kid”, abbracciati sul lettone con fuori il temporale che arrivava, ho detto a mio figlio di
non farsi mettere i piedi in testa da nessuno; di
essere coraggioso, sicuro di sé e di aver fiducia nelle proprie capacità e potenzialità;
di non mollare; di stare da una parte o dall’altra, perché in mezzo non
vale; di portare a termine le cose che inizia. Gli ho detto che a volte si deve
rischiare, a volte solo provare, e che a volte potrà andare male; che deve
mettersi in gioco; che non si deve vergognare di avere un fisico
mingherlino, di avere una macchina scassata, di vivere in una casa semplice, di
non essere ricco. Gli ho detto che, se gli piace una tipa, deve essere gentile
con lei e che quando sarà più grande, se gli piacerà una tipa, non dovrà pensare che non sia alla sua portata, ma ci dovrà provare lo stesso, perché le
tipe sono strane e soprattutto hanno gusti strani e che, se uscirà con questa
tipa, sarebbe meglio che le offra il gelato o la merenda o la pizza. Gli ho
detto che alle feste ci dovrà andare perché si divertirà e che, se non ci andrà,
non lo saprà mai che è bello andarci e rimarrà uno sfigato. Gli ho detto che
arriverà un momento in cui smetterà di raccontare tutto alla mamma e che non
vorrà dire che smetterà di volerle bene. Infine gli ho detto che questo momento
è vicino.
"Quando cammini su strada, se cammini su destra va bene. Se cammini su sinistra, va bene. Se cammini nel mezzo, prima o poi rimani schiacciato come grappolo d'uva. Ecco, Karate è stessa cosa. Se tu impari Karate, va bene. Se non impari Karate, va bene. Se tu impari Karate-Speriamo, ti schiacciano come uva"
Era sera, ero sola davanti
alla tele, e per caso ho messo su LaEffe. Iniziava “Borgen”, ed è stato amore a
prima vista.
“Borgen” è una serie
televisiva danese che racconta la vita di Birgitte Nyborg, che di mestiere fa
il Primo Ministro. Premetto che quella che stanno dando in televisione adesso è
la seconda serie, e che la prima me la sono persa, ma in qualche modo recupererò.
Birgitte è una donna divisa tra lavoro e famiglia, tra pubblico e privato. Cerca di stare in equilibrio, e fa fatica. Che strano. Lei, che di natura sarebbe una "dura e pura", ogni giorno deve prendere decisioni difficili, accettare
compromessi, mediare. Lo deve fare in Parlamento (con i suoi avversari
politici, ma anche con i suoi più stretti collaboratori), con i media (con stampa e tv, sempre a caccia di scoop scandalistici e
notizie in super anteprima), e in famiglia (con un marito e due bambini che
alla sera la aspettano a casa). Il bello è che Birgitte ce la fa. Rimane in
equilibrio, e non si perde.
Birgitte è una donna normale.
Ha tra i quaranta e i cinquant’anni; è bella, si veste bene,
si pettina bene, porta dei begli orecchini; è determinata e coraggiosa; ascolta
tutti, ma poi decide lei; è affettuosa con i figli, senza essere invadente,
nemmeno con la figlia adolescente che con i suoi silenzi la tormenta e la
riempie di sensi di colpa (in una puntata la ragazzina rientra a casa e
vorrebbe mangiare, la mamma le propone - con un sorriso che dice tutto - di
ordinare per telefono una cena thai e lei si rifiuta perché vuole qualcosa di
cucinato, pur sapendo perfettamente che la madre non ha avuto, non ha e non
avrà tempo di cucinare); fatica tremendamente con quel figo del marito, anche
se è evidente che lo ama, ma lui non ce la fa a starle dietro e infatti le
chiede il divorzio (sono rimasta che lei firma le carte, ma non smetto di
sperare che non si separino, accidenti…); ha una casa normale e accogliente,
bianca e allegramente disordinata come sono le case in cui vivono i bambini; nel suo ufficio ci sono sempre piccoli mazzi di fiori freschi a stelo
corto; vive fianco a fianco di un giovane e capace spin doctor (bellissimo
mestiere, se solo potessi tornare indietro di vent’anni…) che però è un tipo strano che non la racconta
giusta, ma che per il momento le è fedele; abita a Copenhagen che è verde, grigia
e umida.
Insomma “Borgen” è un bella
serie, un prodotto ben pensato e ben confezionato. I dialoghi sono interessanti
e per nulla scontati, la sceneggiatura è solida, le tematiche sono attuali, le
facce degli attori belle e normali. E quella particolare "rigidità" che
caratterizza lo stile scandinavo sia in letteratura sia nel design la ritrovo
anche qui, e continua ad affascinarmi e a piacermi.
“Borgen” (che va in onda il martedì alle 21.00 circa su LaEffe - Canale 50 del digitale terrestre - con poca pubblicità e tanti consigli di lettura!) mi fa pensare che per noi donne tutto sia possibile, a
patto che si accetti di vivere in equilibrio su un filo sospeso a ventri metri
d’altezza dal suolo.
ps nell’ultimo episodio,
Birgitte glissa su una domanda di un giornalista così: “Per principio evito di
rispondere a domande ipotetiche”. Anch’io,
come il Primo Ministro, voglio smettere di rispondere a domande ipotetiche e
soprattutto smettere di formularle.
Nel posto dove vivo ci sono
due parchi. In uno i bambini si chiamano Kevin, Melech, Sean e Fatima.
Nell’altro Jacopo, Nicolò, Mattia e Giulia. È apartheid?
“- Ma… non ho soldi-. Avevo
speso dieci scellini per andare a ballare, la sera prima (cinque per entrare e
uno per depositare il cappotto nel guardaroba, poi avevo bevuto tre bibite
perché nessuno mi aveva più chiesto di ballare, dopo che ero caduta. Era
successo durante la quadriglia. Forse ero inciampata sul piede del mio
cavaliere, non so… Comunque ero finita per terra e mi si era alzata la sottana,
così tutti avevano visto le giarrettiere e il resto. Baba si era voltata
dall’altra parte, come se non mi conoscesse, e il mio cavaliere se l’era
svignata verso l’orchestra. Era stato orribile. Poi mi ero rialzata, avevo
sistemato la gonna ed ero andata al piano di sopra. Mi ero seduta sulla
balconata ed ero rimasta lì per tutto il resto della serata, a bere bibite
gasate. Avevo cercato di far finta di niente, come a dimostrare che il ballo
non mi interessava. Intanto, sulla pista, Baba scivolava leggera sotto le luci
rosa e centinaia di ragazze e ragazzi danzavano guancia a guancia, su e giù per
la sala da ballo, sotto i festoni di carta colorata che pendevano dal soffitto
e dondolavano seguendo una musica tutta loro. Poi avevano suonato un valzer e
io mi ero dimenticata di tutto quanto e avevo sperato che il signor Gentleman
comparisse all’improvviso dal nulla e mi riportasse a ballare per tutta quella
notte strana, lunga e dolce, e mi sussurrasse parole romantiche all’orecchio e
mi tenesse tra le braccia, anche quando la musica finiva e le ragazze tornavano
a sedersi, aspettando che ricominciasse e che qualcuno gli chiedesse di
ballare)” ( Edna O’Brien, “ Ragazze di campagna”)
È un appuntamento fisso. Se
siamo a casa il sabato pomeriggio e non abbiamo niente da fare, usciamo in bici
a farci un giro per le strade del paese, ci fermiamo a mangiare un gelato al
solito posto, e poi andiamo al cimitero.
Per arrivarci facciamo il
giro lungo: passiamo sul ponte romano, guardiamo le anatre appisolate al sole, controlliamo
che l’acqua del fiume sia sempre lurida, vediamo se ci sono pesci e poi, giù in
discesa, veloci e senza frenare, pedaliamo verso il cimitero. Parcheggiamo le
bici, le chiudiamo con il lucchetto perché non si sa mai, e facciamo le solite
cose: guardiamo le tombe, contiamo a quanti anni le persone sono morte, ci
commuoviamo davanti alle tombe dei bambini morti precocemente e a quelle dei
soldati caduti in guerra, guardiamo le fotografie e le sculture. Poi arriviamo
alla tomba dei bis-nonni. I bambini fanno il segno della croce, recitano una
preghiera più o meno corretta – del resto la mamma non è preparata, e il papà
soffre di vuoti di memoria - e poi passeggiamo tra le tombe, riflettendo sulla
vita. E sulla morte.
L’ultima volta S., femmina
diabolica, ha detto: “Mamma, quando morirò, vorrò essere cremata e che le
mie ceneri siano sparse sulla cima di una montagna. E una lapide in quel punto
dovrà ricordarmi con queste parole: “La vita è come un lungo viaggio. Alla
fine, si arriva sempre in un bel posto”. Mentre F. –il figlio che ha deciso di essere ateo a dieci anni - dopo aver letto
l’epigrafe su una lapide, mi ha chiesto: “Mamma, cosa significa: requiescat?”.
“Riposa. Requiescat significa riposa, in latino. E in effetti potremmo pensare
alla morte come a un riposo eterno. Cosa ne pensi?”. “Penso che non mi
piacerebbe riposare eternamente”. Difficile trovare argomentazioni. Non ci sono
argomentazioni. Perché vivere non stanca. Mai. Ha ragione lui e glielo dico.
Ogni volta.
ps suggerimento di lettura
per genitori che hanno figli che vogliono andare in gita al cimitero: "Così è la vita" di Concita De Gregorio.