martedì 31 maggio 2016
lunedì 30 maggio 2016
L’odore di casa
Alla signorina Emme piaceva l’odore delle case.
La prima cosa che faceva quando entrava in una casa era
respirare intensamente e definire l’odore che sentiva. Dall’odore di una casa si
potevano capire tante cose di chi la abitava… Odore di detersivo, di libri, di
cane, di bambini piccoli, di gatto, di polvere, di bucato, di vecchio, di nuovo,
di chiuso, di legno, di umido, di bambole, di deodorante per ambienti, di
pulito, di Lego.
Le sue preferite erano le case che profumavano di cibo, e quelle
che sapevano di biscotto o di zucchero o di risotto erano in cima alla classifica. Le case
che, invece, non sopportava erano quelle con tutte lo stesso odore. Generalmente quelle tutte uguali della gente ricca.
E casa sua? Che odore aveva la casa della signorina Emme? Non
lo sapeva. Non lo sentiva l’odore di casa sua.
(opera di David Hockney)
giovedì 26 maggio 2016
I vantaggi della disoccupazione (2)
Rimandare a domani ciò che non voglio fare oggi.
I vantaggi della disoccupazione.
(disegno di Franco Matticchio)
mercoledì 25 maggio 2016
Posso fare una pipì veloce?
"La stazione degli autobus di Oakland distava due chilometri e mezzo dall'appartamento della sua amica Samantha. Quando Pip la raggiunse, con lo zaino in spalla e una valigetta portapattini prestatele da Samantha con dentro la torta vegana alle more che aveva passato la mattina a preparare, le scappava la pipì. Ma la porta del bagno era bloccata da una ragazza della sua età con le treccine afro, una tossica e/o prostituta e/o squilibrata che scosse la testa con enfasi quando Pip cercò di oltrepassarla.
- Posso fare una pipì veloce?
- Ti tocca aspettare.
- Ma tipo, per quanto?
- Per il tempo che ci vuole.
- Che ci vuole per cosa? Non guardo niente. Voglio solo pisciare.
- Cos'hai nella valigetta? - chiese la ragazza. - I pattini?
Pip salì sull'autobus per Santa Cruz con la vescica piena." (J. Franzen, "Purity")
- Posso fare una pipì veloce?
- Ti tocca aspettare.
- Ma tipo, per quanto?
- Per il tempo che ci vuole.
- Che ci vuole per cosa? Non guardo niente. Voglio solo pisciare.
- Cos'hai nella valigetta? - chiese la ragazza. - I pattini?
Pip salì sull'autobus per Santa Cruz con la vescica piena." (J. Franzen, "Purity")
(opera di Ed Templeton)
martedì 24 maggio 2016
La pazza gioia
L’altra sera sono andata al cinema a vedere “La pazza gioia”
di Paolo Virzì preoccupata. Temevo un film troppo delicato, troppo buono, troppo
sentimentale. E, in effetti, “La pazza gioia” è un film delicato, buono e
sentimentale, ma senza il “troppo” davanti a ogni aggettivo.
Racconta l’incontro di due donne a Villa
Biondi, uno splendido casolare immerso nella campagna toscana che ospita un
centro di recupero per donne malate di mente che hanno avuto problemi con la
giustizia: Beatrice, che è ricca, snob, solare, lievemente abbronzata, coi
capelli color miele, intelligente e viziata, e Donatella, che è magrissima, povera,
taciturna, pallida, mora, ombrosa, tatuata e con un tic agli occhi.
Un giorno alcune ospiti di Villa Biondi escono accompagnate dai loro assistenti. Alla prima distrazione, le due si
allontanano dal gruppo e si riavvicinano alla vita precedente: Beatrice vuole
godersela e cerca ovunque la libertà e la felicità; Donatella vuole
rivedere il figlio dato in adozione anni prima dopo un tentativo di suicidio.
Nel loro viaggio/fuga fuori controllo incontreranno “on the road” le proprie
madri assenti, dure, arrabbiate, confuse e cattive, e i propri uomini (padri,
ex mariti, ex amanti) assenti, duri, arrabbiati, confusi e cattivi.
“La pazza gioia” mi è piaciuto per dieci (personalissimi) motivi:
1. perché è luminoso e colorato
2. perché le due attrici protagoniste (Micaela Ramazzotti nel
ruolo di Donatella e Valeria Bruni Tedeschi in quello di Beatrice) sono molto
belle, molto brave, molto diverse e non fanno la gara a chi è più brava e a chi
è più bella, per fortuna
3. perché Valeria Bruni Tedeschi nel ruolo della sagace e mai
zitta Beatrice Morandini Valdirana è molto comica e mi ha fatto pensare alla
cate che, se fosse pazza, sarebbe così.
4. perché è divertente
5. perché ti mette di buonumore
6. perché Virzì ha una sensibilità nei confronti delle donne rara
e preziosa (ma, non voglio/devo dimenticare che co-sceneggiatrice del film è
Francesca Archibugi…)
7. perché gli uomini sono pressoché assenti e quei pochi che ci
sono fanno pena
8. perché racconta che nascere tristi è possibile
9. perché gli occhiali da vista di Beatrice/Valeria sono super
chic e li voglio uguali
10. perché la scena in cui le due protagoniste sono sedute sul
muretto del lungomare di Viareggio è ferma come un quadro di Hopper
L’ultimo film di Virzì è gradevole e te lo guardi volentieri,
ma a mio parere ha due punti deboli: innanzitutto non è un film davvero
moderno, ma sarebbe troppo lungo e difficile scrivere il perché (…potrei scrivere:
“non è moderno perché non fa male” o “non è moderno perché non ha il coraggio di
far male”, ma sarebbe chiaro il mio pensiero?), e poi mi ha fatto scendere
qualche lacrimuccia e, quando io piango al cinema, significa che il film ha toccato
i miei nervi scoperti di madre/donna/moglie nevrastenica, e non va bene.
Voto: 7/8
lunedì 23 maggio 2016
domenica 22 maggio 2016
venerdì 20 maggio 2016
giovedì 19 maggio 2016
I vantaggi della disoccupazione (1)
Mentre fuori diluvia, C. è al lavoro e i bambini sono a scuola, mi metto sotto la coperta, accendo l’iPad della leti e seleziono l’episodio
4 di “Gomorra – La serie”. Poi ne avrò altri dodici da vedere. Ho tempo. La casa
è a posto, il pranzo è nel frigo, la cesta della biancheria sporca è vuota, la macchina è dal meccanico, la laurea è nel cassetto.
I vantaggi della disoccupazione.
martedì 17 maggio 2016
Il bello della vita secondo me (54)
In una bella giornata di sole, mentre tutti sono in pausa
pranzo, io e C. facciamo lezione di tennis col maestro dei nostri figli. Inizia
C. Deve esercitare il diritto colpendo la palla che gli tira il maestro. Io devo
stargli dietro, seguirlo ed eseguire lo stesso movimento, solo il movimento, la
pallina la deve colpire lui. Dopo qualche minuto facciamo cambio, io mi metto
davanti e rispondo al maestro di diritto, C. sta dietro, mi segue ed esercita il
movimento, solo il movimento, la pallina la colpisco io. Poi passiamo al
rovescio.
Il bello della vita secondo me.
lunedì 16 maggio 2016
giovedì 12 maggio 2016
martedì 10 maggio 2016
Caro signor M.
Herman Koch è uno scrittore olandese che va letto.
Qualche anno fa scoprii per caso “La cena” e lo trovai
interessante nello stile e nella trama, fin dalle primissime pagine. Poi vennero
“Villetta con piscina” e “Odessa Star”, forse il romanzo di Koch che ho amato
meno, ma non fa niente.
Adesso ho trovato in biblioteca il suo ultimo libro: "Caro signor M.".
Non so perché l’estate scorsa non lo acquistai appena uscì:
ricordo bene di averlo visto in libreria tra le “novità”, di averlo preso e sfogliato;
forse non mi avevano conquistato né la copertina né la prima pagina; forse ero
concentrata su altro (Nesbo? Franzen? Munro?); forse non avevo soldi da
spendere. Non saprei. Fatto sta che me lo sono preso in prestito in
biblioteca, me lo sono letto, e non ne sono rimasta delusa, anzi posso tranquillamente
affermare che “Caro signor M.” è una buona lettura per quattordici (personalissimi) motivi.
Perché:
1. non è banale
2. racconta i giovani come sono, senza ipocrisia e
moralismi
3. è lucido e spietato (“Diversamente dalla maggior parte
delle mogli degli scrittori, aveva un’attività propria, ma Ana non ricordava
mai quale fosse. Forse aveva a che fare con internet. Qualcosa per cui non
serviva saper fare niente.”)
4. ha una trama accattivante, complessa e forse insidiosa,
ma che all’autore non sfugge mai di mano
(Il signor M. è uno scrittore non più giovane, anzi direi
anzianotto, scontroso, snob, rigido, vanitoso ed egocentrico, sposato con una
donna molto più giovane che inizia a dare i primi segnali di stanchezza, e
padre distratto di una bimba piccola. Un misterioso vicino di casa lo spia.
La sua opera più famosa è un romanzo ispirato a un fatto di
cronaca nera rimasto irrisolto che si intitola “Resa dei conti”. Il libro racconta di
un professore giovane e simpatico, Jan Landzaat, che scompare nel nulla. Due
suoi studenti, Laura e Herman, vengono accusati di omicidio. Il movente? Laura
aveva avuto un breve flirt con il professore che, sedotto e abbandonato, pian
piano ha perso la testa, si è messo a bere e a perseguitare la sua giovanissima e bellissima studentessa, chiamandola in continuazione al telefono e appostandosi sotto casa
sua. Impazzito e fuori controllo escogita un piano diabolico e decide di
metterlo in atto andando a fare una inopportuna e patetica improvvisata a Laura e Herman - che nel frattempo si sono messi insieme - nella casa di campagna di lei; i due non la prendono
bene e così una mattina, dopo una nevicata abbondante, bla bla bla. Nella
realtà i due studenti vengono prosciolti dall’accusa per mancanza di prove, ma
lo scrittore nel suo romanzo preferisce dare una versione differente. Ed è per
questo che il vicino di casa bla bla bla)
5. è un
romanzo articolato: il punto di vista cambia (a volte è quello del vicino
misterioso, a volte quello dello scrittore, a volte quello dei giovani studenti);
le vicende sono intrecciate tra loro (la vita dello scrittore; la vita del
vicino di casa; quella del gruppo di amici e quella del professore Landzaat) e si
svolgono su piani temporali diversi; frequente è l’uso del flashback
6. è ricco di suspense, mistero e colpi di scena
7. è un thriller, e dopo Harper Lee avevo bisogno di leggere
un thriller
8. descrive famiglie che non sono felici
9. ti mette il dubbio che i prof simpatici siano un bluff
10. ti conferma che la scuola è spesso vecchia e noiosa
11. racconta coppie che scoppiano
12. dimostra che le cose non sono mai come appaiono (chi è
innocente? Chi è colpevole? Non lo sai, ti sembra di averlo capito, poi cambi
idea e rimani incerta finché arrivi all’ultima pagina e capisci tutto,
fantastico!)
13. offre spunti di riflessione su temi come: la mediocrità
dell’essere umano, la scuola (“Nella vita reale non ti servono a niente le
chiacchiere su qualche formuletta di fisica, e ancora meno l’inglese
maccheronico che ci propina la Posthuma. How
do you do? My name is Herman. Ma per favore, dai! E se ti aggrediscono per
strada in un quartiere malfamato di Chicago o Los Angeles? Cosa dobbiamo dire
in quei casi, signora Posthuma? How do
you do? O magari qualcos’altro? Qualcosa di più adatto alla situazione. Shut the fuck up, you sick fuck! Go fuck
yourself! Dove va l’accento in motherfucker?
Mi sente, professoressa Posthuma? Mi sente? Cazzo, è svenuta. Anzi no, è
morta”), la tolleranza (in sintesi: la realtà è che ti tollero perché mi sento
superiore a te), la rivoluzione, la famiglia, la morte
14. dà una visione dei libri presi in prestito in
biblioteca che è identica a quella di mia figlia di dieci anni (“Non ho
mai capito come mai la gente voglia prendere i libri in prestito. Certo, magari per mancanza di soldi, ma ci sono
tantissime cose che bisogna negarsi, se mancano i soldi. Personalmente gli
fanno proprio schifo i libri presi in prestito (…). Un libro con le macchie di
vino e un insetto schiacciato, che dalle pagine perde granelli di sabbia
rimasti dalle vacanze al mare del lettore precedente (…) Un libro che è come un
cesso pubblico, e non sai chi ci si è seduto sopra prima di te”)
Voto: 8/9
lunedì 9 maggio 2016
venerdì 6 maggio 2016
Professione?
Provava sempre un certo imbarazzo quando arrivava alla voce:
“professione”.
Data di nascita, sesso, titolo di studio, professione. Professione?
Qual era la sua professione?
C’era stato un periodo in cui non avrebbe avuto dubbi:
impiegata, avrebbe scritto “impiegata”. Semplice e onesto.
Poi, però, ebbe inizio la confusione. Smise di lavorare alle
dipendenze di qualcuno, e divenne una “libera professionista”. Ma cosa
significa “libera professionista”? Tutto e niente, non le piaceva, per cui non
lo scriveva. Giornalista freelance? No, non era giornalista e voleva essere
onesta, innanzitutto con se stessa, poi con gli altri. Solo freelance? Poco
chiaro. Copywriter? Sì, per diversi anni alla voce “professione” scrisse “copywriter”.
Poi il lavoro di copywriter divenne discontinuo e, per un lungo periodo, si
interruppe del tutto. Casalinga? No, casalinga proprio no. Cosa vuol dire fare
la “casalinga”? Rifare i letti, fare il bucato e la polvere, cucinare, stirare,
pulire il bagno e il pavimento, caricare la lavastoviglie, svuotare la
lavastoviglie, fare shopping, fare la spesa, preoccuparsi dei figli,
telefonare, ascoltare la radio, leggere, navigare in internet, fare
volontariato, bere un caffè con le amiche, portare la macchina a cambiare le
gomme, andare in posta e poi dal parrucchiere? Tutte le donne fanno la “casalinga”,
chi più, chi meno. Piuttosto disoccupata. E per circa un anno alla voce
“professione” scrisse: “disoccupata”.
Poi un giorno si guardò intorno e le venne un’idea: avrebbe iniziato
a prendersi cura di bambini molto piccoli che non erano i suoi, a giocare con
loro, a portarli al parco, a leggergli storie, a preparargli la pappa, a
cambiargli il pannolino, a dargli le medicine quando si fossero ammalati, a farli
addormentare piano piano in braccio, a consolarli quando avessero pianto, a
sgridarli quando avessero fatto i capricci, e si sarebbe fatta pagare per questo. La
babysitter, avrebbe fatto la “babysitter”.
Iniziò così a fare la babysitter, ma non aveva smesso di
scrivere, e ogni giorno faceva un po’ di “casalinga”. Per cui prese una
decisione e, su quell’ultimo modulo che doveva compilare, alla voce
“professione” avrebbe scritto felice e sicura: “copywriter/casalinga/babysitter”.
giovedì 5 maggio 2016
Confine
“Inizialmente è soprattutto uno shock” dice. “Anzi, non
proprio uno shock, in fondo te lo aspetti da mesi. La malattia. La cura. La speranza
di guarigione. La ricaduta. Sei preparato, eppure quando succede è ugualmente
strano. Fino all’ultimo giorno ho continuato a sperare in un miracolo. Alla fine
succede. Da quel momento superi un confine, esiste soltanto un prima e un dopo.
Ogni giorno che ti allontana da quel confine, le cose successe nel prima
diventano più importanti. Più nette, più pesanti. Non vuoi dimenticare tua
madre, ma soprattutto non vuoi dimenticare il prima.” (Herman Koch, “Caro
Signor M.”)
martedì 3 maggio 2016
Va’, metti una sentinella
caro lettore, se non
hai letto “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee forse questo post non sarà di
tuo gradimento, quindi decidi tu se proseguire o meno nella lettura
Perché leggere "Va', metti una sentinella" di Harpeer Lee?
Per sei (personalissimi) motivi:
1. per farti la tua idea sulla querelle in corso.
La faccio breve, anche se breve non è.
Harper Lee propose “Va’, metti una sentinella” a una casa
editrice, che non lo accettò. L’editor, però, la congedò suggerendole di
tornare da lui dopo aver sviluppato le parti del testo dedicate ai ricordi
d’infanzia. Così fece, e nacque “Il buio oltre la siepe”.
“Va’, metti una sentinella” non fu mai pubblicato, e rimase
chiuso in un cassetto per anni.
La cronaca racconta che il manoscritto sia stato trovato dall’avvocato
della Lee che decise di pubblicarlo col consenso della scrittrice, però molto
vecchia e affetta da demenza senile… In molti pensano che il libro non sarebbe
mai dovuto uscire.
Io non la vedo così. “Va’, metti una sentinella” va letto
sapendo che è una sorta di bozza, un primo tentativo, una prova che porterà poi
al capolavoro. Non a caso:
- non è un libro autonomo
- potrebbe risultare incomprensibile, noiosissimo e senza
senso per chi non abbia letto “Il buio oltre la siepe”
- non è omogeneo (il filo narrativo si interrompe spesso e
bruscamente, e sono proprio le pagine dedicate ai ricordi d’infanzia, quelle
che più erano piaciute all’editor, a creare queste interruzioni)
2. Perché “Va’, metti una sentinella” è un testo senza
“missione” e a me per questo è piaciuto.
Sarà che i buoni dopo un po’ mi annoiano; sarà che preferisco
i cattivi, o chi vive nel dubbio; sarà che mi stuzzica ciò che destabilizza; sarà
che i buoni sentimenti mi fanno venire il diabete; sarà che il “Il buio oltre
la siepe” è sorretto da un fin troppo evidente scopo edificante; fatto sta che “Va’,
metti una sentinella” l’ho letto con piacere. E la nuova versione di Atticus, e
della gente di Maycomb, che ha disorientato molti lettori, a me ha intrigato.
La faccio ancora breve, anche se breve non è.
“Va’, metti una sentinella” è stato scritto prima de “Il buio
oltre la siepe”, ma gli avvenimenti che vi sono narrati sono successivi a
quelli raccontati nel capolavoro della Lee.
Siamo negli anni Cinquanta (“Il buio oltre la siepe” si
svolge negli anni Trenta). Scout, la protagonista che è bambina ne “Il buio
oltre la siepe”, è una giovane donna, ribelle, disinibita ed emancipata, che vive
e lavora a New York e decide di tornare a Maycomb a trovare il padre. Ciò che
vede non le piace. E così va in crisi. Suo padre, che ne “Il buio oltre la
siepe” è un avvocato integerrimo e tutto di un pezzo che difende i neri, è un
razzista, convinto che la gente di colore sia irresponsabile e incivile, da
tenere lontana. È pauroso, d’animo meschino ed egoista.
Ne “Il buio oltre la siepe” la piccola Scout racconta il
padre, che adora. Ma mi chiedo: il padre di Scout è il padre di Harper Lee? Probabilmente
no. Ho letto da qualche parte che il padre della scrittrice era un avvocato
segregazionista.
Cosa succede in “Va’, metti una sentinella”? Scout da grande
vede il padre sotto una luce diversa? O è il padre che è cambiato dopo vent’anni?
O è sempre stato così e la bambina non lo capiva? O in questo romanzo, sotto la
figura di Atticus, si nasconde il vero padre della Lee, mentre ne “Il buio
sotto la siepe” Atticus era il padre idealizzato? Insomma, ce ne sarebbe per un
corso monografico di letteratura americana, o di psicanalisi…
3. Perché “Va’, metti una sentinella” è un testo necessario
per inquadrare meglio il capolavoro di Harper Lee e merita una profonda analisi
critica (che non tarderà ad arrivare, me lo sento).
4. Perché è un libro serio.
5. Perché leggere fa bene sempre.
6. Perché, a non leggerlo per principio, si farebbe un torto
a Harper Lee.
(per chi non lo sapesse nel 1960 uscì “Il buio oltre la
siepe” - che io vergognosamente ho letto per la prima volta un mese fa… Ottenne
un successo planetario – vinse il Pulitzer e vendette, e continua a vendere,
tantissimo - che la scrittrice faticò a gestire e, infatti, non pubblicò mai più
nulla)
Perché non leggere “Va’, metti una sentinella”?
Per due (personalissimi) motivi:
1. non leggerlo se sei molto affezionato alla figura
granitica di Atticus Finch (interpretato sul grande schermo da un
indimenticabile Gregory Peck) perché in “Va’, metti una sentinella” la
ritroveresti sotto una luce talmente diversa che rischieresti un infarto.
2. non leggerlo se non hai letto (o riletto recentemente)
“Il buio oltre la siepe”, perché ti annoieresti mortalmente e capiresti poco.
lunedì 2 maggio 2016
C’è chi…
C’è chi ti crede incapace di provvedere a te stesso e quindi
ti costringe a risparmiare.
(disegno di Ugo Guarino)
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