sabato 30 gennaio 2016

Revenant

Ho visto “Revenant - Redivivo”, il film di Alejandro Iñárritu in odore di molti Oscar con protagonista Leonardo di Caprio, e ho qualcosa da dire.

Parto veloce con la trama che è tratta da una storia vera e incredibile narrata da Michael Punke nel romanzo "Revenant".
Siamo nella prima metà dell’Ottocento, all’inizio dell’inverno, nelle foreste canadesi. La guida Hugh Glass (Leonardo di Caprio) – che non si separa mai dal figlio adolescente mezzosangue avuto da una donna indiana, poi ammazzata dai bianchi - deve riportare al forte un gruppo di cacciatori di pelli sopravvissuto a un terribile attacco indiano, ma un’orsa lo aggredisce e lo riduce in fin di vita. Il figlio, il cacciatore più giovane del gruppo e il più esperto (John Fitzgerlad, interpretato da Tom Hardy) decidono di restare con lui, per assisterlo in attesa dei rinforzi o per dargli degna sepoltura in caso di morte. Fitzgerald però tradisce i patti, uccide il figlio davanti agli occhi del padre, abbandona Hugh a se stesso e, con un subdolo inganno psicologico, se ne torna al forte col cacciatore giovane, inesperto e sconvolto da ciò che vede accadere. Hugh sorprendentemente resiste, si rialza e cerca vendetta. Inizia così la sua odissea.


“Revenent” è un film complesso e lungo che non ti lascia indifferente.
Mi è piaciuto, ma non mi ha conquistata del tutto e cercherò di spiegarne i motivi. Mi ha poi lasciato delle domande in testa che difficilmente avranno risposta.

“Revenant” non mi ha convinto per quattro (personalissimi) motivi.
1. Perché troppe immagini si ripetono (gli alberi sono sempre sempre sempre fotografati da sotto in su, ad esempio)
2. Perché i personaggi non sono sfaccettati, non hanno sfumature. I buoni sono buonissimi, i cattivi sono cattivissimi.
3. Perché a metà film la spettatrice si ritrova a contare tutto ciò che accade a questo pover’uomo e tutto ciò che questo pover’uomo fa per sopravvivere, e così il film rischia di trasformarsi in un elenco di tragedie; poi, la stessa spettatrice, inizia a considerare la storia sempre più incredibile (“porca miseria, Rambo in confronto è una femminuccia!”, abbiamo esclamato all’unisono io e la leti quando Leo si è infilato la polvere da sparo nella ferita nella trachea e poi le ha dato fuoco) e infine, all’ennesima sventura, non ce la fa più ed esclama ad alta voce: “Eh no, dai! Adesso basta, questo no!”.
4. Perché nell’ultima immagine del film, quando di Caprio guarda fisso in camera, gli leggi in faccia: “Oscar Oscar Oscar, datemi l’Oscar, Oscar, Oscar, se no piango, uffa”.

“Revenant” mi è piaciuto per sei (personalissimi) motivi:
1. per l’uccellino che sbuca dal petto della moglie indiana di Hugh e vola in cielo nel momento in cui lei muore.
2. Per i primi bellissimi minuti, quando i cacciatori di pelli camminano in silenzio nella foresta con i piedi immersi nell’acqua e poi vengono attaccati dagli indiani, e tu ti senti lì con loro tanto hai paura. Questa sequenza non stonerebbe in un film sul Vietnam o di guerra, e del resto i cacciatori di pelli sembrano davvero dei soldati. Ho provato, guarda caso, la stessa agitazione che ho vissuto durante i primi terribili minuti del film “Salvate il soldato Ryan” (ma mi è tornata in mente anche la scena della battaglia nel bosco de “Il Gladiatore”, con le frecce che ti sibilano nelle orecchie…).
3. Per la scena dell’attacco dell’orso che ti domandi come l’abbiano girata talmente è credibile.
4. Per le musiche vibranti di Sakamoto e Noto.
5. Perché il protagonista dà all’indiana, prigioniera dei francesi, l’occasione di vendicarsi da sé.
6. Per la presenza “fisica” della videocamera del regista (il fiato che appanna il vetro, il sangue che ci schizza sopra, i riflessi in controluce che non so definire tecnicamente).

Ed ecco, infine, le tre (personalissime) domande che mi girano in testa dalla fine del film:
1. se a dirigere questo film ci fosse stata una donna, che scelte estetiche avrebbe fatto? Si sarebbe fermata così a lungo su sangue, ferite e scalpi? Il protagonista avrebbe forse grugnito meno e pronunciato qualche parolina in più?
E poi:
2. Perché il regista non è stato più moderno, non ha osato di più per rendere più visibile il dramma allucinogeno e allucinato che il protagonista ha vissuto dal momento in cui si è alzato, ha abbandonato il cadavere del figlio e ha iniziato quello che poteva essere un trip psichedelico verso la vendetta? Per farla breve, mi piacerebbe un giorno vedere la versione cinematografica di questa avventura del regista inglese Danny Boyle, quello di “Trainspotting” per intenderci.
3. Premiare di Caprio con l’Oscar per questa (ottima) interpretazione non sarebbe banale? Perché bisogna sempre premiare gli attori che interpretano ruoli fisicamente estremi? (un mio amico di gioventù, che adesso fa il regista, sosteneva spavaldo che avrebbe vinto l’Oscar anche lui se gli avessero offerto la parte di Dustin Hoffman in “Rain Main”, e probabilmente aveva ragione perché la camminata e l’espressione del viso che faceva per farmi ridere imitando il protagonista del film, erano davvero credibili).

Insomma, “Revenant” è un film da vedere. Il mio voto? 7/8. Ma non sono una tipa di manica larga.


venerdì 29 gennaio 2016

La mia ultima domanda

“La mia morte, oggi, è una realtà. Un tempo non era una possibilità, se non nella visione romanticizzata di una morte per overdose. Ma il destino ha voluto diversamente. Sono sopravvissuto e ora devo morire in modo più convenzionale. Questa è l’accettazione, che porta con sé una domanda: prima di scomparire, posso trarre un significato, un senso da tutto questo? C’è un progetto? È la domanda che ci poniamo da sempre, e la risposta è sempre la stessa: la risposta non c’è. Il che non ci impedisce di continuare a farla. Io non smetterò mai. Sarà la mia ultima domanda” (David Bowie, dall’intervista rilasciata nel 2003 a Luca Dini per “Vanity Fair”)


mercoledì 27 gennaio 2016

Balthus

Era un tipo sottile ed elegante. Un uomo che mi sarebbe piaciuto.

 

Questo signore è Balthus, il pittore francese famoso per i dipinti che ritraggono lolite.

  
Qualche giorno fa ho fatto una scappata a Roma e ho visto la retrospettiva dedicata a Balthus che ancora per pochissimi giorni è visitabile alle Scuderie del Quirinale e a Villa Medici (ma questa parte della mostra -allestita nel palazzo con giardino dove Batlhus visse negli anni Sessanta, quando venne nominato Direttore dell’Accademia di Francia a Roma- non ho avuto il tempo di vederla, purtroppo) e che poi si traferirà a Vienna.

  
Balthus non l’ho studiato a scuola, né al liceo né all’Università. L’ho scoperto però presto, da ragazzina, a casa della mia compagna di liceo anche lei coi capelli rossi. Passavamo i pomeriggi a tradurre dal greco o dal latino e, ogni volta che entravo nel suo bellissimo bagno azzurro, trovavo appeso sulla parete il poster dell’opera di Balthus “Nudo allo specchio”. Ricordo che lo osservavo volentieri perché mi incuriosivano la nudità bianca e la rigidità di quel corpo ben tornito di ragazza e mi domandavo se l'autore di quel quadro fosse un contemporaneo o un pittore vissuto nel tardo medioevo. 


L’arte di Balthus che ho visto a Roma è sicura, aristocratica, solitaria e affascinante.
I suoi quadri sono seri, originalissimi, statici, misteriosi, maliziosi, apparentemente semplici, molto interessanti. Li guardi e ci scopri dentro la storia dell’arte: ci trovi Giotto, Masaccio e Piero della Francesca ma anche Cezanne, Matisse, Picasso, la metafisica di De Chirico, la nuova oggettività di George Grosz e di Otto Dix, ci vedi Casorati e anche Donghi. Balthus conosceva bene ciò che gli altri avevano prodotto e producevano, ma ne rimaneva aristocraticamente “sopra”, andava avanti per la sua strada, forte e snob, senza rinunciare alla rappresentazione della figura umana o del paesaggio, nemmeno negli anni in cui l’astrattismo andava tanto di moda.
Alla mostra romana ho visto paesaggi solidi e italiani nel senso più nobile del termine.


Ritratti bellissimi, come quello della ragazza rossa di capelli con la borsetta beige che ho pubblicato nel post di ieri, e questo:


Ho visto nature morte misteriose con vetri rotti, coltelli affilati e un bicchiere identico a quello che ho adocchiato due settimane fa su una bancarella di un mercatino dell’usato.


Ho visto mariti e mogli impegnati in mondi paralleli.


E poi ho visto "Il gatto del Mediterraneo", un dipinto assurdo che cerco di farmi piacere, ma che continua a non piacermi anche se, adesso che ho scoperto che Balthus (che adorava i gatti) l’aveva dipinto per un ristorante di pesce, il soggetto mi sembra assai più chiaro.


Uniche pecche la totale assenza di cartoline e poster al bookshop della mostra e il divieto assoluto di scattare foto, nemmeno col cellulare, mannaggia. L'unica foto che sono riuscita a rubare è questa:


un disegno di Balthus che pare il bozzetto di uno stilista!

martedì 26 gennaio 2016

La crisi

Aveva paura di essere ignorata, di non interessare alle persone quanto credeva. Al tempo stesso desiderava starsene sola, vivere nascosta. Così arrivò la crisi. 
Un giorno si decise: avrebbe iniziato a scrivere e avrebbe smesso di parlare.


lunedì 25 gennaio 2016

Dove sono gli uomini (stamattina)?

Ore 8.
Il treno parte puntuale.
Guardo fuori dal finestrino.
Periferia, nebbia, poi pianura e casolari, è tutto troppo beige.
Mi stanco presto.
Così mi volto.
Sbircio tra i sedili.
Nascosta dietro il giornale, osservo la gente che viaggia con me.
Donne.
Borse da bambina, scarpe a buon mercato, capelli sfibrati, gonne corte, trucco sbavato, occhiali vecchi, voci alte, nervi tesi, menti aguzzi, visi seri, rughe, occhi spenti, mani screpolate, capelli sparsi su maglioni beige o neri o neri e beige.
Scrivono veloci sulla tastiera del cellulare, cosa? a chi? perché?
Cerco copertine di libri, ma non le trovo.
M'immagino le loro vite.
Sento freddo.
Dovrei andare in bagno, ma gli occhi mi si chiudono.
Dove sono gli uomini (stamattina)?

(opera di Ed Templeton)

domenica 24 gennaio 2016

Traguardo

Quando ero giovane facevo parte di una squadra di atletica leggera. Le mie specialità erano la corsa veloce e il salto in lungo. Ma l’allenatore spesso mi iscriveva a tutte le altre gare, così la squadra avrebbe preso più punti. Ricordo di aver gareggiato nel lancio del peso e del giavellotto, e in una sconfortante corsa a ostacoli. Ma ciò che più ho impresso nella memoria è una gara sui mille metri che mi fecero correre all’Arena di Milano, durante i Giochi delle Gioventù.
Avevo fatto le “mie” gare ottenendo i soliti risultati mediocri, e non ce la facevo più, ero stremata, correvo e sentivo il cuore saltarmi fuori dal petto, la bocca amara. Avrei voluto fermarmi, la fatica era enorme e io ero allenata per lo sprint, non per la resistenza, accidenti. Decisi di rallentare il mio già lentissimo ritmo di corsa. Poi, quasi ferma, alzai gli occhi dalla pista e vidi mio padre. Era in piedi sugli spalti che batteva forte le mani e urlava: “Vai Isabella, vai Isabella, vaiiiiii!!!!”.
Resistetti e raggiunsi sconvolta il traguardo. Arrivai non ultima, ultimissima. Tra me e la penultima ragazza ci saranno stati almeno cinquanta metri di distacco.
Dopo qualche mese abbandonai l’atletica perché mi impegnava tanto e io volevo pensare solo allo studio. Quella corsa, però, non l’ho dimenticata. Mi aveva fatto bene.


giovedì 21 gennaio 2016

Il bello della vita secondo me (46)

C che dopo aver letto gli ultimi post mi chiama e mi chiede: “scusa, ma sei arrabbiata?”.
Il bello della vita secondo me.


martedì 19 gennaio 2016

lunedì 18 gennaio 2016

Dopo una certa età

“Dopo una certa età i litigi sostituiscono il sesso” (Gore Vidal)

(disegno di Geoff McFetridge)

sabato 16 gennaio 2016

Can you hear her, Major Tom?

16 gennaio. Ore 12. “Papà, la domanda di inglese che volevo farti ieri sera quando tu però già dormivi è questa: perché Major Tom in Space Oddity dice and the stars IS very different today?"
Can you hear her, Major Tom?






venerdì 15 gennaio 2016

Decisioni

Poteva decidere di smettere di parlare, ma non di continuare a sorridere.


giovedì 14 gennaio 2016

C’è chi…

C’è chi sottovaluta tutto sempre, non per debolezza psicologica, per atteggiamento.



mercoledì 13 gennaio 2016

Camogli

Torno a Camogli per tanti motivi, sempre gli stessi, da anni.
Ci torno perché non è un posto comodo e a me i posti comodi dopo un po' annoiano.
Perché i liguri non sono dei chiacchieroni, mentre nella città in cui vivo le chiacchiere sono un gran passatempo.
Perché a Camogli ci sono grandi terrazze sul mare dove i ragazzini giocano a pallone per ore, in tutte le stagioni, con qualsiasi tempo e, quando sono strapiene di persone, loro continuano a giocare come se niente fosse. Mentre li osservo, ogni volta mi domando se questi che giocano a pallone sono ragazzini del posto o ragazzini come S e F che arrivano, si guardano intorno, iniziano a giocare e per due giorni è come se ci vivessero da sempre a Camogli.
Perché c’è la focaccia calda col formaggio più buona del mondo, che te la mangi lì fuori di fronte al mare.
Perché le luminarie di Natale sono semplici e perfette, probabilmente le stesse da decenni, ma a Camogli va bene così.
Perché ci sono negozietti che vendono borse, scarpe, anelli, collanine e i braccialetti che mi sono comprata qualche settimana fa tintinnano tremendamente bene.
Perché l’aria è buona.
Perché si possono fare passeggiate bellissime, su fino a San Rocco per godere un panorama mozzafiato e poi giù a Punta Chiappa dove le onde del mare d’inverno sbattono forte sugli scogli. E se hai voglia di camminare di più, puoi spingerti fino all'abazia di San Fruttuoso e poi arrivare a Portofino tutta sudata seguendo sentieri panoramici e abbastanza impegnativi.
Perché le case di Camogli non hanno porte blindate e nemmeno ascensori.
Perché i giovani parlano con gli anziani, nei bar davanti a un caffè o al porto vicino alle reti da pesca.
Perché tutti si conoscono.
Perché ci sono i fichi d'India a ricordarmi i posti che amava mio padre.
Perché alla Befana c’è il “cimento” , un tuffo di gruppo nelle acque gelide del mare come se fosse estate, e F ha messo il muso perché non gli ho permesso di fare il bagno, ma gli ho promesso che l’anno prossimo lo faremo tutti e quattro.
Perché ho reso felice mia figlia comprandole una palla dei colori dell’arcobaleno “che, sai mamma, si trova solo a Camogli”.
Perché a Camogli gli uomini sono belli, più belli delle donne, alti, magri, con la barba, gli occhi scuri, il volto segnato e serio.
Torno a Camogli perché Camogli è snob e antipatica e io ci sto da dio.

lunedì 11 gennaio 2016

Ashes To Ashes

Oggi è un brutto giorno. Non c’è luce, piove ed è morto David Bowie
Ashes to ashes.


domenica 10 gennaio 2016

Peccato che sia stato tutto così veloce

“Non mi sento particolarmente felice e sicuramente non sono euforico; avverto come un vuoto. Sotto il progetto, che ha dominato per tre anni quasi tutti i miei pensieri e sul quale si sono concentrati tutti i miei sogni e le mie speranze, in un attimo ho tracciato un “segno di spunta”. Fatto. Risolto.
Neanche per un secondo mi passa per la testa che la salita in libera del Torre è sicuramente il mio più grande successo alpinistico. Avverto solo il vuoto che improvvisamente mi pervade, adesso, nel momento del successo, della gioia auspicata, della festa, del ballo. Forse ci si sente così di fronte a un figlio che ha portato a termine un capitolo della sua vita e della sua formazione. Bello essere arrivati qui. Però peccato che sia stato tutto così veloce.” (David Lama, “Free. Il Cerro Torre e io”)


sabato 9 gennaio 2016

giovedì 7 gennaio 2016

domenica 3 gennaio 2016

Proposito per l’anno nuovo

La signorina Emme aveva l’abitudine di iniziare l’anno nuovo stilando un elenco dei propositi che avrebbe cercato di realizzare nei circa trecentosessanta giorni successivi. Andare sempre bene a scuola, andare a trovare più spesso sua nonna, imparare a giocare a tennis benissimo, correre dieci chilometri tre volte alla settimana, chiamare suo padre, trovare un nuovo fidanzato, perdere cinque chili, non lamentarsi, non litigare con nessuno, visitare il Cenacolo, fare più sesso, andare al cinema tantissimo, leggere tantissimo, visitare tantissime mostre, smettere di parlare, cercare nuovi amici… per citarne solo alcuni. 
Qualcuno di questi propositi lo aveva realizzato, come smettere di parlare. Altri (tanti) no.
Il 2016, però, iniziò diversamente. Per quell’anno la signorina Emme si appuntò sul taccuino nero un’unica apparentemente semplice frase: vivere e lasciar vivere. Ce l’avrebbe fatta?

(foto di Nina Leen)

sabato 2 gennaio 2016

Tensione

Ultimamente le capitava troppo spesso per non rifletterci sopra e prendere delle decisioni.
Quando le persone intorno a lei scherzavano senza fare attenzione, senza voler fare attenzione o senza fare abbastanza attenzione, si creava tensione, una tensione strana, che la signorina Emme percepiva bene ma gestiva male, e che alla lunga la stancava. 
Aveva provato a stare al gioco, a recitare la sua parte e provare a scherzare; aveva provato ad andarsene sul più bello; aveva provato a non smettere di sorridere; aveva provato a cambiare discorso; aveva provato a far finta di niente; aveva provato a reagire. Ma non era servito a nulla. La (sua) tensione non si abbassava. Forse sarebbe meglio starmene sola, pensava, ma prima avrebbe fatto un ultimo tentativo: avrebbe provato a smettere di parlare.
(disegno di Geoff Mcfetridge)