Ho
visto “Revenant - Redivivo”, il film di Alejandro Iñárritu in odore di molti Oscar con protagonista Leonardo di Caprio, e ho
qualcosa da dire.
Parto veloce con la trama che è tratta da una storia vera e
incredibile narrata da Michael Punke nel romanzo "Revenant".
Siamo nella prima metà dell’Ottocento, all’inizio dell’inverno, nelle foreste canadesi. La guida Hugh Glass (Leonardo di Caprio) – che non si separa mai dal figlio adolescente mezzosangue avuto da una donna indiana, poi ammazzata dai bianchi - deve riportare al forte un gruppo di cacciatori di pelli sopravvissuto a un terribile attacco indiano, ma un’orsa lo aggredisce e lo riduce in fin di vita. Il figlio, il cacciatore più giovane del gruppo e il più esperto (John Fitzgerlad, interpretato da Tom Hardy) decidono di restare con lui, per assisterlo in attesa dei rinforzi o per dargli degna sepoltura in caso di morte. Fitzgerald però tradisce i patti, uccide il figlio davanti agli occhi del padre, abbandona Hugh a se stesso e, con un subdolo inganno psicologico, se ne torna al forte col cacciatore giovane, inesperto e sconvolto da ciò che vede accadere. Hugh sorprendentemente resiste, si rialza e cerca vendetta. Inizia così la sua odissea.
Siamo nella prima metà dell’Ottocento, all’inizio dell’inverno, nelle foreste canadesi. La guida Hugh Glass (Leonardo di Caprio) – che non si separa mai dal figlio adolescente mezzosangue avuto da una donna indiana, poi ammazzata dai bianchi - deve riportare al forte un gruppo di cacciatori di pelli sopravvissuto a un terribile attacco indiano, ma un’orsa lo aggredisce e lo riduce in fin di vita. Il figlio, il cacciatore più giovane del gruppo e il più esperto (John Fitzgerlad, interpretato da Tom Hardy) decidono di restare con lui, per assisterlo in attesa dei rinforzi o per dargli degna sepoltura in caso di morte. Fitzgerald però tradisce i patti, uccide il figlio davanti agli occhi del padre, abbandona Hugh a se stesso e, con un subdolo inganno psicologico, se ne torna al forte col cacciatore giovane, inesperto e sconvolto da ciò che vede accadere. Hugh sorprendentemente resiste, si rialza e cerca vendetta. Inizia così la sua odissea.
“Revenent” è un film complesso e lungo che non ti lascia
indifferente.
Mi è piaciuto, ma non mi ha conquistata del tutto e cercherò
di spiegarne i motivi. Mi ha poi lasciato delle domande in testa che difficilmente
avranno risposta.
“Revenant” non mi ha convinto per quattro (personalissimi)
motivi.
1. Perché troppe immagini si ripetono (gli alberi sono
sempre sempre sempre fotografati da sotto in su, ad esempio)
2. Perché i personaggi non sono sfaccettati, non hanno
sfumature. I buoni sono buonissimi, i cattivi sono cattivissimi.
3. Perché a metà film la spettatrice si ritrova a contare
tutto ciò che accade a questo pover’uomo e tutto ciò che questo pover’uomo fa
per sopravvivere, e così il film rischia di trasformarsi in un elenco di
tragedie; poi, la stessa spettatrice, inizia a considerare la storia sempre più
incredibile (“porca miseria, Rambo in confronto è una femminuccia!”, abbiamo esclamato
all’unisono io e la leti quando Leo si è infilato la polvere da sparo nella
ferita nella trachea e poi le ha dato fuoco) e infine, all’ennesima sventura,
non ce la fa più ed esclama ad alta voce: “Eh no, dai! Adesso basta, questo no!”.
4. Perché nell’ultima immagine del film, quando di Caprio
guarda fisso in camera, gli leggi in faccia: “Oscar Oscar Oscar, datemi
l’Oscar, Oscar, Oscar, se no piango, uffa”.
“Revenant” mi è piaciuto per sei (personalissimi) motivi:
1. per l’uccellino che sbuca dal petto della moglie indiana
di Hugh e vola in cielo nel momento in cui lei muore.
2. Per i primi bellissimi minuti, quando i cacciatori di
pelli camminano in silenzio nella foresta con i piedi immersi nell’acqua e poi
vengono attaccati dagli indiani, e tu ti senti lì con loro tanto hai paura.
Questa sequenza non stonerebbe in un film sul Vietnam o di guerra, e del resto
i cacciatori di pelli sembrano davvero dei soldati. Ho provato, guarda caso, la
stessa agitazione che ho vissuto durante i primi terribili minuti del film
“Salvate il soldato Ryan” (ma mi è tornata in mente anche la scena della
battaglia nel bosco de “Il Gladiatore”, con le frecce che ti sibilano nelle
orecchie…).
3. Per la scena dell’attacco dell’orso che ti domandi come
l’abbiano girata talmente è credibile.
4. Per le musiche vibranti di Sakamoto e Noto.
5. Perché il protagonista dà all’indiana, prigioniera dei
francesi, l’occasione di vendicarsi da sé.
6. Per la presenza “fisica” della videocamera del regista
(il fiato che appanna il vetro, il sangue che ci schizza sopra, i riflessi in
controluce che non so definire tecnicamente).
Ed ecco, infine, le tre (personalissime) domande che mi
girano in testa dalla fine del film:
1. se a dirigere questo film ci fosse stata una donna, che
scelte estetiche avrebbe fatto? Si sarebbe fermata così a lungo su sangue,
ferite e scalpi? Il protagonista avrebbe forse grugnito meno e pronunciato qualche parolina in più?
E poi:
2. Perché il regista non è stato più moderno, non ha osato
di più per rendere più visibile il dramma allucinogeno e allucinato che il
protagonista ha vissuto dal momento in cui si è alzato, ha abbandonato il
cadavere del figlio e ha iniziato quello che poteva essere un trip psichedelico
verso la vendetta? Per farla breve, mi piacerebbe un giorno vedere la versione
cinematografica di questa avventura del regista inglese Danny Boyle, quello di “Trainspotting”
per intenderci.
3. Premiare di Caprio con l’Oscar per questa (ottima) interpretazione
non sarebbe banale? Perché bisogna sempre premiare gli attori che interpretano
ruoli fisicamente estremi? (un mio amico di gioventù, che adesso fa il regista,
sosteneva spavaldo che avrebbe vinto l’Oscar anche lui se gli avessero offerto
la parte di Dustin Hoffman in “Rain Main”, e probabilmente aveva ragione perché
la camminata e l’espressione del viso che faceva per farmi ridere imitando il
protagonista del film, erano davvero credibili).
Insomma, “Revenant” è un film da vedere. Il mio voto? 7/8. Ma
non sono una tipa di manica larga.
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